Sono cresciuto negli anni d’oro del calcio italiano. Quando c’era il meglio e il peggio del calcio mondiale. Nel paginone centrale dell’album Panini 83/85, insieme alle caricature di Zico, Platini, Passarella e Boniek, Falcao e Cerezo, c’erano Pedrinho e Louvanor del Catania, Eloi del Genova e Trifunovic dell’Ascoli. Però a noi sembravano tutti campioni; mica li vedevi giocare mai! La stagione dopo, il peggio si ridusse, e arrivarono anche Maradona e Junior.Pensavamo che il campionato di Serie A esistesse solo in Italia. Il resto del mondo aveva solo quello di Serie B. Probabile che non avessero nemmeno gli stadi, ma giocassero nei giardini davanti al municipio o nel cortile del convento dei Frati, come noi. Era facile sognare, con quel calcio.Era uno sport di immaginazione, più che altro, e di fede.E di materiale su cui sognare ce n’era parecchio. Il mio calciatore preferito però, in quegli anni d’oro, non era nella prestigiosa Serie A. Anzi, era proprio all’opposto. Militava nel glorioso girone Q del campionato di terza categoria della provincia di Ravenna, il girone dei comuni lontani dalla riviera, nascosti negli Appennini, e vestiva la casacca azzurro sbiadito numero 9 dell’Associazione Calcio Casola Valsenio.Si chiamava Giancarlo Andreatta, era geometra presso l’ufficio tecnico del comune di Castel Bolognese, e uno l’avrebbe potuto benissimo scambiare per il gemello di Vasco Rossi. Anche Andreatta, come le divinità, non lo vedevi tutti i giorni, ma solo la domenica, quando dal suo paese veniva a giocare su da noi. Ma visto che io lo idolatravo, il martedì e il giovedì sera scappavo di casa, calandomi dalla finestra del nostro appartamento delle case popolari, al primo piano, e di nascosto andavo a vedere gli allenamenti della prima squadra. Stavo aggrappato alla ringhiera del campo che confinava con via Cenni. Faceva sempre un gran freddo e c’era un gran nebbione ogni sera.Ma ogni tanto, tra i tentacoli di nebbia, vedevo fluttuare la zazzera del bomber Andreatta, e il cuore mi prendeva a battere fortissimo.Andreatta segnò trenta gol in quel campionato. L’ultimo lo fece in rovesciata, dallo spigolo dell’area grande, portando la nostra squadra alla finalissima per la promozione in seconda categoria, una vetta mai raggiunta in trent’anni di storia. Vinsero la finale ai rigori, allo stadio comunale di Faenza. Andreatta non segnò in quella partita, ma non importava. Io avrei continuato a sognarlo per tutta la vita con la maglietta azzurra sbiadita gonfia di vento, lanciato verso la porta avversaria, con la zazzera alla Vasco Rossi prima maniera che sbatteva nell’aria, come il vessillo di una nave all’arrembaggio.Per questo ho sempre amato i giocatori capaci di farmi sognare.Che non dovevano necessariamente essere i migliori del mondo.I migliori del mondo si vedevano troppo spesso, e quando una cosa la vedi troppo spesso, non riesci a sognarci sopra. Nella mia fantasia di bambino patito di calcio, di giovane portiere di riserva dei pulcini dell’Ac Casola, alcuni possedevano un qualcosa che li faceva smettere di essere semplici calciatori, trasfigurandoli in qualcos’altro. Epico e romantico. Come i cavalieri medioevali.E a parte il geometra Andreatta, pochi sono riusciti a farmi sognare come l’ex portiere della mia squadra del cuore, il leggendario Boranga.Non giocava più a Cesena da anni, quando io esordii per la prima volta come panchinaro nel Casola. In tutta la mia vita, l’avevo visto di sfuggita in qualche vecchio pezzo in bianco e nero sulla Rai e in una foto di squadra impolverata del Cesena Calcio stagione 75/76 appesa nella sala da biliardo del Bar Nuovo, tra i campioni olimpici di Pozzo del 1936 e un Bologna di Bulgarelli che qualcuno ci aveva scarabocchiato una parolaccia sopra.Praticamente, Lamberto Boranga era uno sconosciuto, per me.E non sapevo ancora che era uno dei pochi calciatori ad essere laureato e che addirittura scriveva delle poesie, cosa di cui poi si doveva difendere nelle interviste sui giornali, visto che ai tifosi del Cesena, soprattutto gli anziani delle Case del Popolo e dei Circoli Endas, non gli faceva fiducia uno che scriveva poesie, perché anche se non avevano studiato, sapevano che chi scriveva poesie erano persone strane e poco affidabili, come Giovanni Pascoli, che tra l’altro era di San Mauro, a un tiro di schioppo dallo stadio.Quello che mi fece impazzire, di Boranga, oltre a quei pantaloncini che non erano come quelli moderni fatti apposta per i portieri, ma uguali a quelli degli altri calciatori, oltre alle ginocchia senza alcuna protezione, erano le mani senza guanti. Soprattutto, le mani senza guanti.Giocava a mani nude. Questa cosa mi emozionava come quando l’ombra di Andreatta passava nella nebbia a due metri da me.Mi sembrava un tale portento!Mi sembrava così coraggiosa. Davvero. Come affrontare un drago senza la spada. Per questo, nel 1985, fui l’unico portiere di tutto il campionato provinciale pulcini che scese in campo senza guanti.Volevo essere come Boranga. Anche se non sapevo esattamente come giocava, anzi non ne avevo la più pallida idea, volevo essere come lui. A mani nude. Senza paura. Ecco.La mia grande fortuna è stata quella di aver potuto sognare il calcio, più che di guardarlo. Oggi è diverso. Ogni giorno c’è una partita, che poi si può riguardare all’infinito. Puoi anche metterla in pausa, se hai finito le patatine e la birra. Una volta mica potevi metterla in pausa.E nemmeno potevi avere le patatine e la birra in casa.E tutta questa sciccheria la si può fare senza spostarsi di un centimetro dal divano di casa. Il divano è la tomba dei sogni, ne sono più che certo. Il mio calcio era un essere rarissimo e sfuggente. Ne trovavi qualche traccia su novantesimo minuto, o nella la sintesi del secondo tempo di una partita su RaiTre la domenica dopo cena e, soprattutto, nella partita di coppa il mercoledì sera, vista tutti accalcati al bar, con la televisione alta sopra il frigorifero dei gelati, come un fuoco fatuo tra il fumo azzurro delle sigarette.Questo gli conferiva qualcosa che non c’è più. Qualcosa che ha a che fare con l’epica e la fantasia. Qualcosa che c’entra più con il vedere una cosa, che con il guardarla. E lì, soltanto lì, quando appariva per due secondi Boranga, senza guanti, con il baffi biondi e il ciuffo ribelle, era come imbattersi, finalmente, in un unicorno.
© Riproduzione riservata