Il regista americano Bob Wilson al 60mo Festival di Spoleto
«Penso che sia importante che i giovani siano coscienti di cosa accadde durante la Rivoluzione ungherese del 1956 e che conoscano la storia di quel movimento». Questo il motivo per cui il grande regista americano Bob Wilson, artista poliedrico capace di rivoluzionare il concetto di teatro e di arti visive della fine del Novecento, riporta in vita il suo Hamletmachine, scritto dall’amico drammaturgo della Ddr Heiner Müller, al 60° Festival di Spoleto a partire dal 7 luglio e poi in tournée. Sono passati trent’anni dalla storica prima di New York, e il regista texano 76enne porta in scena, su commissione dello stesso Festival, il dramma di Amleto nell’era della “cortina di ferro” con un cast di giovani allievi italiani, inaugurando la prima compagnia stabile dell’Accademia d’arte drammatica “Silvio d’Amico” di Roma.
Bob Wilson, lei è un assiduo frequentatore del Festival di Spoleto. Qual è il suo rapporto con il Festival e con l’Italia, dove è molto amato?
«Questo è il decimo anno consecutivo che vengo al Festival di Spoleto, ma la prima volta che ho portato un mio lavoro qui era il 1973 al Teatro Caio Melisso. Tutti i miei lavori, sin dall’inizio della mia carriera, sono stati messi in scena in Italia. A partire dal 1971 quando Deafman Glance (Lo sguardo del sordo) fu portato a Roma, fino all’anno scorso quando L’Incoronazione di Poppea di Monteverdi è stata messa in scena alla Scala. Ho portato performances nelle gallerie, nei parcheggi, nei teatri tradizionali, piccoli e grandi, con superstar, studenti e non professionisti. Sono fortunato che gli italiani abbiano abbracciato tutti i differenti aspetti del mio lavoro. Ora è in corso una mostra a Villa Panza a Varese dove ho una installazione permanente nel giardino e una serie di videoritratti esposti nella villa. Gli italiani conoscono il mio lavoro molto meglio dei miei connazionali ».
Come mai ha scelto di fare interpretare Hamletmachine a dei giovani studenti italiani? Fa parte del suo interesse per il valore educativo dell’arte, come si può vedere nel suo Watermill Centre a Eastern Long Island, New York?
«Il lavoro che feci all’epoca sui giovani attori non professionisti in America è parallelo a quello di oggi. Ma la formazione e l’educazione degli studenti italiani sono completamente differenti da quello che faccio. Il mio lavoro è non-interpretativo, non-psicologico e formale. È un nuovo modo di pensare per loro e di affrontare tutti gli aspetti del teatro ».
Com’era il giovane BobWilson e come si è avvicinato al teatro?
«Sono cresciuto a Waco, in Texas, una città dove non c’erano teatri o musei o gallerie d’arte. Non ho mai studiato teatro. Se lo avessi fatto, non farei il tipo di teatro che affronto ora. Il mio lavoro arrivava dal vivere la vita, dalle persone che ho conosciuto per caso e dalla loro influenza sul mio modo di pensare e sul mio lavoro. Ho imparato a fare teatro facendolo, non leggendo un libro in classe».
Tanto che ha subito stupito sin dal suo primo lavoro per il teatro, Lo sguardo del sordo, dove protagonista era un ragazzo sordomuto.
«Lo spettacolo durava 7 ore ed era silenzioso, basato sull’osservazione di Raymond, dei sogni che aveva, dei disegni che faceva. Ho messo tutto ciò insieme alle mie idee e costruito un’opera silenziosa».
Ed oggi, dopo anni di esperienze artistiche e umane, qual è l’approccio di Bob Wilson alla vita reale?
«Quello che è necessario per un artista è porre domande, non avere le risposte. Chiedersi "che cosa è?" e non dire che cosa è».
Lei è uno dei pochi che frequenta le diverse forme d’arte: dalla pittura, alla scultura, al design, al teatro senza confini. Com’è il suo processo creativo?
«Il mondo è una biblioteca. Se tu guardi fuori dalla finestra ci sono così tante informazioni. Che tu sia in una città o in un aeroplano».
Lei ha ridefinito le arti performative e visuali con il suo stile unico: pensa di avere anticipato alcune sensibilità di oggi?
«L’avanguardia riscopre sempre i classici. Accade in ogni generazione».
Anche Hamletmachine affonda le sue radici nel classico Shakespeare ma anche nell’Europa dell’Est durante l’era comunista. Qual è il suo significato oggi?
«Il lavoro è pieno di molti significati. È un testo filosofico. Può riflettere l’oggi, il futuro o il passato. È pieno di tempo».
E riflette il tema sempre attuale del potere. In quanto americano, cosa pensa della politica di Trump?
«Penso che sia deplorevole. Ci dà l’opportunità di ripensare le nostre vite e come siamo governati. Bisogna essere forti quando si affronta un drago».
Lei ha curato l’allestimento e la regia di molte opere liriche nella sua vita, l’ultima è Traviata. Quale è il suo approccio per rendere l’opera contemporanea?
«John Cage diceva che non c’è nulla di meglio del silenzio, perché è sempre suono. Nel senso che è sempre musica. I francesi chiamavano i miei primi lavori “Opere silenziose”. La mia sfida come regista è di creare uno spazio sul palco dove uno possa ascoltare e vedere più facilmente. Normalmente si può ascoltare meglio con gli occhi chiusi, si possono ascoltare più attentamente i cantanti, gli strumenti, la voce. Come posso fare qualcosa sul palco che mi permetta di ascoltare meglio di quando ho gli occhi chiusi?».
Nel suo lavoro che spazio hanno le nuove tecnologie e internet? Lei come si pone nei confronti di un mondo ipertecnologizzato?
«Il mondo tecnologico è come il fuoco. Deve essere maneggiato con cura. Può riscaldarti o distruggerti»