I suoi nonni erano arrivati in Gran Bretagna con una delle prime navi che trasportavano uomini e donne dai Caraibi, manodopera per ricostruire il Paese messo in ginocchio dalla seconda guerra mondiale. Li hanno chiamati "Generazione Windrush", dal nome della prima imbarcazione che nel 1948 portò a Londra migliaia di migranti, che ora la ministro dell’Interno Amber Rudd avrebbe voluto rispedire indietro. Uno scandalo che l’ha costretta a dimettersi, ma che ha riaperto anche molte ferite. Le stesse che hanno vissuto non solo i nonni di Yewande Omotoso, ma anche uno dei personaggi del suo romanzo, La signora della porta accanto, in uscita il 10 maggio per i tipi dell’editrice 66thand2nd (pagine 255, euro 16,00). Un romanzo lieve, in cui la Storia entra in punta di piedi e si intreccia con le storie dei personaggi e, in fondo, anche con la storia personale dell’autrice.
Yewande Omotoso, classe 1980, è una giovane scrittrice africana dall’identità multipla: mamma delle Barbados, è nata sull’isola caraibica, per poi crescere nel Paese d’origine del padre, la Nigeria, e quindi trasferirsi, nel 1992 - all’epoca della dittatura feroce di Ibrahim Babangida - in Sudafrica, dove si stava aprendo la nuova promettente stagione del post aparteid. «È come se mio padre avesse avuto una visione – ci racconta con entusiasmo Yewande di passaggio a Milano –; vedeva nel Sudafrica l’inizio di un nuovo mondo. E in effetti era un po’ così; anche se poi, a guardarci dentro, era ed è un Paese pieno di contraddizioni». Così come lo sono anche le due protagoniste del romanzo, Marion e Hortensia, personalità complesse e anche controverse, che rispecchiano una realtà in deflagrante evoluzione. Due signore ottantenni, perché, dice Yawende, «mi piaceva l’idea di raccontare due personaggi che avessero alle spalle una lunga vita vissuta, con tutto il suo bagaglio di desideri e disincanto, di successi e fallimenti, di rimorsi e rimpianti, di soddisfazioni e tristezze; due persone dalle identità multiformi, forgiate dall’esperienza della migrazione e che si ritrovano a vivere in un Paese che deve, esso stesso, fare i conti con una memoria difficile».
Marion è bianca, figlia di ebrei fuggiti da un Paese baltico, che desiderano solo cancellare la memoria. E così cresce senza fare i conti con la storia dei suoi genitori, ma anche senza veramente confrontarsi con la realtà in cui vive. «Ignorare l’evidenza – i- ronizza Yewande sul suo personaggio – richiede un certo sforzo! Marion è razzista senza neppure rendersene conto; ha maturato dentro di sé un atteggiamento così intimo che fatica persino a distinguerlo». Vedova e madre di tre figli con cui ha pessimi rapporti, ha costruito una carriera di architetto in un’epoca e in un Paese dove per una donna non era per nulla scontato affermarsi professionalmente. «Il razzismo di Marion – spiega l’autrice – è una sorta di costruzione; così come l’apartheid in Sudafrica era un’architettura pensata, progettata e realizzata in ogni minimo dettaglio. Decostruirlo, sia nello spazio pubblico, nella società, nell’economia, ma anche nel cuore delle persone, è una sfida che richiede molto tempo e che continua ancora oggi». Hortensia è in un certo senso l’opposto, ma in fondo anche l’alter ego di Marion, con cui ha molte cose in comune, come il fatto di aver avuto, pure lei, un grande successo nel suo lavoro di designer.
Nera, discendente da una famiglia caraibica, Hortensia ha studiato in Gran Bretagna dove si è innamorata di un inglese, in un tempo in cui le coppie miste erano guardate con sospetto se non con vera e propria avversione. Anche per lei il matrimonio sarà fonte di grande disillusione, a cui si aggiunge la pena di non avere avuto figli. Hortensia abita accanto a Marion, nella prima casa che ha progettato, ma che non ha mai potuto avere. Carattere scontroso e burbero, Hortensia coltiva una grande rabbia dentro e tante domande inevase sulla sua vita e il suo matrimonio. Marion fa i conti con i debiti lasciati dal marito che mettono in discussione anche la sicurezza economica che era stata una delle poche certezze della sua esistenza. Entrambe vivono in un sobborgo di poche case alla periferia di Città del Capo, abitate dall’alta borghesia bianca, dove neri come Hortensia, per quanto ricchi, introducono un elemento di instabilità e inquietudine, così come la richiesta di restituzione di alcune terre agli originari proprietari o il desiderio di una famiglia di seppellire le ceneri del proprio defunto in quello che un tempo era un cimitero. Piccole questioni, ma fortemente destabilizzanti per una micro comunità che mai si era interrogata sul fatto che lì c’era stato qualcuno prima di loro e che più di loro aveva diritto a quella terra.
«Città del Capo – precisa l’autrice – presenta ancora oggi i segni visibili di quelle divisioni. È una città che può essere bellissima e, allo stesso tempo, orribile. Certo, molto è cambiato dall’epoca dell’apartheid, ma per tanti versi le differenti comunità continuano a vivere divise le une dalle altre». Come hanno fatto anche le due protagoniste del romanzo che in vent’anni di vicinanza non si sono mai veramente incontrate e si sono cordialmente detestate. Finché un incidente le costringe a vivere insieme per qualche tempo. E, in qualche modo, a conoscersi e ad avvicinarsi per davvero.