venerdì 19 giugno 2015
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Nel basket c’è un “prof” che è Sandro Gamba, il calcio ha avuto qualche “dottore” (“Fuffo” Bernardini), un “profeta” (Giovanni Galeone) e un “filosofo” (Manlio Scopigno). Ma il vero filosofo dello sport italiano è il coach dell’Italvolley maschile, Mauro Berruto. Uno splendido 46enne dal pensiero forte che, non solo per la camicia bianca e il jeans d’ordinanza, invece che in panchina potrebbe salire tranquillamente in cattedra, magari al fianco dell’ideologo principe della “nouvelle philosophie”, Bernard-Henry Levy. Basta ascoltarlo, una mattina che arriva trafelato – dopo un match della World League – all’Expo di Milano, timido, sorridente, felice di esercitare l’arte dell’incontro, quello con gli educatori della Polisportive giovanili salesiane. Il suo pensiero sta facendo scuola, anche fuori dai palazzetti dello sport. I suoi romanzi diventano spettacoli teatrali (Independiente Sporting va in scena con i giovani attori del Municipale Teatro di Torino, regia di Enrico Gentina). Prime lezioni di vita e di sport apprese all’oratorio di San Bernardino, quartiere operaio San Paolo, a Torino, la sua città. «Sarò un po’ retorico, ma il motto di quegli anni, “Insieme è più facile”, continua ad essere il mio personalissimo modo di intendere la pallavolo e la vita». Una vita da eterno studioso, fino a 25 anni in campo con gli universitari del Cus Torino, gli ultimi venti passati a ricercare e allenare in giro per il mondo, con uno sguardo conradiano, antropologico.«Nella professione di allenatore ho ritrovato la necessità di lavorare a processi di costruzione di identità e di formazione di gruppi. Gli studi universitari in Filosofia - tesi di laurea in Antropologia -, e soprattutto la ricerca sul campo fatta in Madagascar, rimangono esperienze forti, indimenticabili, estremamente utili nella gestione di una squadra di pallavolo».Debutto da fine stratega del volley alla guida del Lecce Pen (A2) nel ’94, poi ritorno a Torino dopo l’esperienza dell’Olympiacos Pireo. Prima puntata greca, cui seguirà quella al Panathinaikos, nel 2007, in un’Atene destinata al collasso economico attuale. «Adoro la Grecia, la considero la mia seconda casa. Quello che sta accadendo al popolo greco è una ferita che mi brucia e mi fa arrabbiare. A mio giudizio, c’è una parte d’Europa che si compiace nell’essere forte con i deboli. Ma l’Europa non può esistere senza la Grecia, con la quale ha un debito aperto, per la democrazia, per l’arte e la filosofia che abbiamo ereditato da quella civiltà». È l’appello del più sensibile dei nostri ambasciatori dello sport che «grazie alla pallavolo – dice – ho viaggiato per il mondo e ho imparato che la bellezza di un Paese è nella sua maggiore capacità di comprendere e accogliere le differenze». Dopo gli anni della formazione, passando per le nostre cattedrali del volley (Piacenza, Parma, Macerata), il filosofo Berruto nel 2005 sbarcò con il suo ricco bagaglio teoretico nella fredda Finlandia, scaldandola e rendendola improvvisamente protagonista.«Arrivai in un momento in cui la pallavolo lì era uno sport seguito da pochi affezionati e la loro nazionale languiva ai margini del movimento continentale. Poi la scintilla: dopo un meraviglioso 4° posto agli Europei di Mosca 2007, un intero Paese di colpo si appassionò a questo sport, con un aumento esponenziale di interesse e di praticanti. C’è una fotografia che porto sempre dentro di me, quella della notte magica all’Ice Hockey Hall di Tampere. Di fronte a 8mila spettatori la mia Finlandia batteva (3-2) i campioni olimpici e del mondo del Brasile». L’apoteosi, superata a Londra 2012 dal bronzo olimpico con l’Italia. «Sì, ma l’emozione, l’entusiasmo, il rispetto per i nostri avversari brasiliani e l’orgoglio che ho percepito quella sera in Finlandia è forse l’esempio più alto di cultura sportiva – spiega Berruto –. Una dimensione che misuro nella pratica quotidiana e che mi piace identificarla come la “cultura del movimento”. Tutto ciò ha a che fare con l’idea che praticare uno sport migliori la qualità della propria vita, tanto in termini di salute quanto di benessere psicologico. L’insegnamento di questa responsabilità individuale del prendersi cura di se stessi, anche grazie all’attività motoria, è una delle sfide che dovrà affrontare la nostra scuola di domani». Concetti didattici chiari, trasmessi dall’oratore privo di retorica. Dei tanti incontri fatti durante il suo percorso esistenziale considera un privilegio quello avuto con Padre Pedro, il missionario di origine argentina che ha dedicato la sua vita al Madagascar. «Nella più grande discarica alla periferia della capitale, Antananarivo, ha incominciato la sua missione di evangelizzazione regalando ai bambini il dono del gioco. Da un campo di calcio, sorto in un luogo disperato e dimenticato da tutti, poco alla volta è cresciuto un villaggio dove oggi ci sono scuole, un presidio sanitario e mense pubbliche. Padre Pedro è quanto di più si avvicina alla mia idea di santità e mi emoziona il fatto che tutto ciò che ha costruito sia stato possibile grazie a uno strumento semplice e universale: un pallone». Oltre al pallone da volley è quello da calcio che affascina e ispira il Berruto scrittore. Il pallone è al centro dei suoi due romanzi, Andiamo a Vera Cruz con quattro acca (Bradipolibri) e Independiente Sporting (Baldini&Castoldi). In quest’ultimo con un passo stilistico degno dei migliori narratori sudamericani - Galeano e Soriano - la vicenda calcistica del giovane Ernesto Guevara (il futuro “Che”) si fonde con quella dell’emigrazione degli italiani in Argentina.«Scrivere per me è un hobby, che mi fa stare bene. La scrittura mi offre la possibilità di raccontare il mio modo di intendere lo sport che considero uno scrigno di meravigliose storie che vale la pena raccontare. Lo sport poi ti permette sempre di aprire una finestra sulla società... L’emigrazione dei nostri connazionali in Argentina o in quello che un tempo si chiamava il “Nuovomondo” dovrebbe farci essere più umani e rispettosi, riguardo a quelle migliaia di anime in pena che continuano a sbarcare sulle nostre coste. La maggior parte di loro, uomini, donne e bambini fuggono dalla fame, come facevano i nostri “padri”, e dalla guerra». Nel prossimo libro, di mezzo c’è la “Grande Guerra” e protagonista è il mitico lottatore triestino Giovanni Raicevich (uscirà sempre per Baldini&Castoldi): «Una bellissimia storia dimenticata». Del resto nel volley, come nella letteratura, il ct va sempre alla ricerca della «grande bellezza». E questa si ritrova pienamente in una disciplina come la pallavolo, in cui la parità dei sessi non è mai stata in discussione. «La forza delle donne è motrice del mondo. Non può che essere così anche nella pallavolo e nello sport tutto. Penso alla quattrocentista marocchina Nawal El Moutawakel che, grazie ai suoi successi nell’atletica, ha cambiato la prospettiva e il modo di considerare le donne nel suo Paese. Recentemente la nostra Nazionale è stata protagonista di una partita di World League a Teheran durante la quale una donna che desiderava assistere all’incontro è stata arrestata in virtù di una legge islamica che lo proibiva. Dopo le iniziative promosse dalla Federvolley mondiale, non solo è stata liberata ma, da quest’anno, per tutte le donne iraniane sarà possibile assistere agli eventi sportivi».Tutto questo si traduce nella massima illuminante dello scrittore brasiliano Paolo Cohelo che il ct ha postato sul suo sito: «Va’ a prendere le tue cose. I sogni richiedono fatica». Nella tabella di marcia di coach Berruto, la fatica sta al primo posto, assieme «all’impegno, per realizzare progetti nelle nostre periferie, nei quartieri la cui fama si deve alle organizzazioni criminali e al controllo che queste hanno di quei pezzi d’Italia. Mi piacerebbe che fosse lo sport a restituire questi territori ai loro cittadini».
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