giovedì 11 aprile 2024
Il saggio di Jacopo Tomatis, racconta la grande rivoluzione nella musica popolare partita 60 anni fa da una canzone e uno spettacolo omonimo, “Bella ciao”, che divenne un caso politico
“Bella ciao” 1964: Cati Mattea, Silvia Malagugini, Gaspare De Lama e Giovanna Marini

“Bella ciao” 1964: Cati Mattea, Silvia Malagugini, Gaspare De Lama e Giovanna Marini - Iedm

COMMENTA E CONDIVIDI

Bella ciao, o anche l’apoteosi dell’esegesi musicale. Se c’è una canzone della nostra tradizione popolare che è stata revisionata e sezionata in tutte le sue parti e in ogni singolo verso, beh statene certi, questa è Bella ciao che ufficialmente, cioè dalla sua prima “esibizione pubblica”, compirebbe sessant’anni. Ma attenzione. Prima di dare cifre e informazioni a caso - come spesso si è fatto in materia -, spieghiamo questo 60° che è la risultante di quella che nel suo ultimo saggio, Bella ciao (il Saggiatore. Pagine 239. Euro 18,00), Jacopo Tomatis, 40enne docente di Popular Music e Etnomusicologia all’Università di Torino, rimanda, fin dal sottotitolo, a Una canzone, uno spettacolo, un disco. Tre distinti «oggetti culturali». Il primo: trattasi di canzone, cantata da alcune formazioni di partigiani negli ultimi scampoli della guerra di liberazione e per questo è diventato l’inno di tutti gli antifascisti e «negli anni Venti del nuovo millennio, una precisa scelta politica che offre l’innesco a infiniti scontri e dibattiti. All’estero invece Bella ciao è diventata la canzone della libertà per eccellenza». Secondo punto: è uno spettacolo che festeggia i 60 anni perché andò in scena nel giugno del 1964 al Festival dei Due Mondi di Spoleto «causando uno dei più vivaci scandali della musica nazionale», scrive Tomatis. Terzo: un album, uno di quei vinili di una volta, ormai rari e preziosi, dell’etichetta I Dischi del Sole, stampato e ristampato con il titolo Le canzoni di Bella ciao.

Nuovo canzoniere italiano all'assalto

Senza il doveroso preambolo non si può comprendere la portata del lavoro di etnomusicologia attorno a questa canzone, che è molto più di un brano e di un inno politico o di un semplice canto popolare: è una pietra miliare del folk. Un pilastro della tradizione italica arcinoto nel mondo e tradotto in decine di lingue, diventato “revival” in pieno boom anni ‘60, grazie appunto allo spettacolo del Nuovo Canzoniere Italiano (NCI). Un gruppo nato a Milano nel 1962 intorno al cenacolo culturale della rivista omonima, Il Nuovo canzoniere italiano fondata dalle menti sapienziali di Roberto Leydi e Gianni Bosio, due pionieri dello studio e della riscoperta della canzone popolare. Bosio era il direttore delle Edizioni Avanti!, casa editrice collegata al giornale del Partito Socialista Italiano, pertanto la matrice politica del gruppo era ben chiara a tutti, a cominciare dai suoi musici e cantori entrati a far parte del progetto. I primi ad unirsi furono il compositore Sergio Liberovici e i “cantautori politici” torinesi Fausto Amodei e Michele Straniero, che a loro volta provenivano dall’esperienza del Cantacronache, creata sotto la Mole sulla scia dei lavori di etnomusicologia dell’americano Alan Lomax, e che vide la luce tra la fine del 1957 e i primi mesi del ’58. «Il primo esperimento italiano di canzone con scopi didascalici e politici», sottolinea Tomatis. Il lavoro sperimentale che origina dal motto «evadere dall’evasione» attira le attenzioni degli intellettuali, a cominciare da Italo Calvino e Franco Fortini, i quali comprendono la portata epocale del fenomeno. Il travaso cinematografico del neorealismo, dieci anni dopo il suo massimo riconoscimento internazionale, approda nella popular music. Sotto l’etichetta comunista Italia Canta, viene pubblicato il 45 giri Cantacronache sperimentale e da Torino questa ondata di protesta canora espressa attraverso il folk musicale arriva a Milano dove al Teatro Gerolamo la premiata ditta del Piccolo, Paolo Grassi e Giorgio Strehler, fiuta il vento del cambiamento radicale, anche intorno all’universo folk «proponendo in maniera sistematica un repertorio di canzoni per un pubblico colto e politicizzato».


Aprire una nuova via​

L’obiettivo dichiarato è «aprire una via italiana al cabaret», secondo la definizione di Umberto Eco, ispirata al canzoniere di Bertolt Brecht, George Brassens e Jacques Brel. Da noi ad aprire quella strada sono due artiste, la cantante pop in ascesa e musa di Strehler Ornella Vanoni che si fa conoscere ed apprezzare con i testi scabrosi de Le canzoni della malavita internazionale. L’altra, è l’attrice e fedelissima di Pier Paoli Pasolini, Laura Betti, che porta in scena lo spettacolo Giro a Vuoto in cui il regista Filippo Crivelli fa già le prove generali per il destabilizzante Bella ciao di Spoleto. La Betti in Giro a vuoto recita e canta testi di canzoni scritte anche dal suo grande amico e mentore Pier Paolo Pasolini, affiancato dagli scrittori Giorgio Bassani, Alberto Moravia, Franco Fortini , Alberto Arbasino. Le musiche dello spettacolo sono affidate ai maestri Fiorenzo Carpi, Gino Negri e Piero Umiliani. Gruppi di pensiero ancor prima che musicali che, con imprinting antropologico alla Ernesto De Martino, attraverso la ricerca dei suoni, delle voci e i testi del passato, vanno alla ricerca di un salvagente per restare a galla nel grande oceano del progresso dirompente della nuova società dei consumi. La memoria collettiva legata ai canti della Grande Guerra e della Resistenza, oltre che alle canzoni che hanno come tema gli scioperi e le rivoluzioni degli altri Paesi – dalle canzoni della Resistenza spagnola a quella algerina, fino alla cubana. Nel 33 giri Canti di protesta del popolo italiano Liberovici per la prima volta raccoglie alcune delle canzoni politiche più cantate del Novecento Italiano: da Addio Lugano a Le otto ore. Brani che vengono riproposti al Festival di Spoleto del ’64 e che l’anno dopo sono inseriti nell’album Bella Ciao, il 33 giri che nel dicembre del ‘66 da Botteghe Oscure vola assieme al leader del Partito Comunista Italiano Enrico Berlinguer fino in Vietnam dove ne fa dono al presidente Ho Chi Min. Uno scatto storico ritrae la consegna di quel disco che è anche la pietra dello scandalo portato nel salotto artistico del maestro Gian Carlo Menotti. Istrionico compositore italoamericano, quanto talent scout, si fa convincere dall’altrettanto spirito mecenatistico del discografico Nanni Ricordi ad azzardare l’allestimento di quello spettacolo di teatro-canzone che, nell’omaggiare Bella ciao, sia nella versione partigiana che in quella postuma delle mondine, si proponeva di divulgare tutta una serie di canti di protesta civile e politica.

Lo scandalo del Caio Melisso​

Così sul palco del Teatro Caio Melisso il 22 giugno di sessant’anni fa fanno la loro “irruzione” Michele Straniero e la chitarra del pittore Gaspare De Lama che accompagna le voci delle “pasionarie”: Caterina Bueno, Maria Teresa Bulciolu, Giovanna Marini, Silvia Malagugini, Cati Mattea e Sandra Mantovani, quest’ultima moglie di Roberto Leydi già distintasi nello spettacolo Milanin Milanon. A loro si uniscono alcuni “autentici” esponenti del mondo popolare: il Gruppo Padano di Piàdena e la cantante, ex mondina di Gualtieri, Giovanna Daffini. Un cast di ricercatori-provocatori che in platea ammalia Ennio Flaiano, Laura Betti e Franca Valeri accorsi in loro sostegno e contro l’opposta fazione, quella della nobiltà parruccona e snob accomodata sui palchi reali. Sono le dame di corte del Duca spoletino Menotti che rispondono ai casati Pecci-Blunt, Paolozzi-Spaulding, Brandolini d’Adda (vedi Kiki, nata Agnelli). Queste per voce di una loro collega di sangue blu, ritratta da Giorgio Bocca come «signora impellicciata», fanno sentire il loro dissenso riguardo a quel verso: «E nelle stalle più non vogliam morir», tratto dalla canzone E per la strada gridavano i scioperanti. «Va’ fuori, carampana!» è la risposta immediata di Bocca alla signora indignata, portavoce degli “scandalizzati” che nella replica del 21 giugno contestano apertamente Michele Straniero che intona O Gorizia tu sei maledetta nell’unica versione a lui nota e in cui dice: «Traditori signori ufficiali / che la guerra l’avete voluta / scannatori di carne venduta / e rovina della gioventù». Un fuori copione bollato come atto di dissidenza antimilitarista. A Spoleto si è passati dal Rosankavalier di Strauss, diretto dall’allora cineasta in ascesa Louis Malle alla musica barricadera dell’NCI, sigla che per i benpensanti è l’acronimo di un brigatismo pernicioso per le sorti dell’ancor giovane Repubblica italiana. La forte polemica fa arricchire il botteghino del Festival e grazie allo spettacolo i riflessi sul panorama della canzone d’autore italiana assumono contorni epocali. Nulla sarebbe stato più lo stesso, a cominciare dal fronte della musica popolare. Basti pensare alla cantina romana del Folk Studio dove nel 1971, negli stessi giorni in cui quattro ragazzi scalcagnati (Bassignano, Lo Cascio, De Gregori e Venditti) «con la chitarra e il pianoforte sulla spalla» partono alla conquista del mondo, altri quattro ragazzi come loro setacciano l’Agro Pontino e le campagne appena fuori la capitale, alla ricerca della verace e primordiale canzone popolare. Sono i ragazzi del Canzoniere del Lazio, gruppo folk fondato da Piero Brega, voce solista, Francesco Giannattasio, organetto e percussioni, Sara Modigliani, voce e flauto, e Carlo Siliotto, violino, chitarra e mandolino. Un piccolo laboratorio di antropologia musicale salpato seguendo la stessa rotta del Nuovo Canzoniere Italiano che, dal 1962 al ‘79, organizzò oltre 3.500 spettacoli di una intensità pari a quella spoletino e oltre a pubblicare quasi trecento dischi fonda l’Istituto Ernesto de Martino per la conoscenza critica e la presenza alternativa del mondo popolare e proletario. Alla faccia di quelli che ancora oggi credono che con la cultura non si mangia... Bella ciao.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI