sabato 26 ottobre 2024
Un libro riaccende i riflettori sul club sparito per i tanti soprusi unionisti e protestanti, orgoglio di una comunità che trovava nel calcio uno strumento di speranza e di riscatto
Il vecchio “Celtic Park”, stadio del Belfast Celtic trasformato negli anni Ottanta in un centro commerciale

Il vecchio “Celtic Park”, stadio del Belfast Celtic trasformato negli anni Ottanta in un centro commerciale

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C’è un angolo d’Europa dove la Storia, con i suoi conflitti e le sue ideologie, è entrata a gamba tesa anche sui campi di calcio. Parliamo dell’Irlanda del Nord terra dilaniata da sempre da un dualismo identitario che ha fatto a pezzi anche il pallone. Da un lato gli unionisti e i lealisti fedeli al Regno Unito, in larga maggioranza protestanti e discendenti dai coloni provenienti dalla Gran Bretagna, dall’altro i repubblicani, autoctoni, e principalmente cattolici, favorevoli a un’Irlanda unita e indipendente. Trent’anni circa di scontri e disordini ( The Troubles) che dalla fine degli anni Sessanta alla fine degli anni Novanta hanno causato oltre 3 mila morti. E lo stesso accordo di pace del Venerdì Santo nel 1998 non ha messo fine alle tensioni che si avvertono ancora negli stadi tra le diverse tifoserie. Perché anche il rettangolo verde è diventato specchio di una società turbolenta dove a farne le spese sono stati i club “scomodi” in cui si riconosceva la minoranza repubblicana e cattolica. Una pagina di storia e di sport che non può essere dimenticata perché decisiva per comprendere il presente, come dimostra anche lo scrupoloso saggio Irlanda, calcio e rivoluzione di Greta Selvestrel (Rogas, pagine 270, euro 21,70). Il fischio d’inizio di una partita così complessa e spesso drammatica risale addirittura al XVII secolo quando gli inglesi decisero di eseguire il loro piano di colonizzazione. Dopo secoli di ostracismo nei confronti della cultura locale, gaelica e cattolica, nel 1921 il trattato anglo-irlandese divise l’Ulster: tre contee entrarono a far parte della Repubblica d’Irlanda, le altre sei rimasero legate al Regno Unito formando l’Irlanda del Nord con capitale Belfast.

È proprio questa città l’epicentro dello scontro etnico fra le due comunità che si estese anche ai due maggiori club calcistici: il Celtic Belfast di stampo repubblicano e cattolico e il Linfield FC di impronta unionista e protestante. Il Celtic era nato nel 1891 nel quartiere cattolico di West Belfast. I fondatori si erano ispirati al più noto Celtic Glasgow FC, il club degli emigrati irlandesi in Scozia sorto grazie alla passione del frate marista Brother Walpresente frid (1840-1915). Furono adottati anche gli stessi colori (il bianco e il verde) e come nella capitale scozzese anche a Belfast lo stadio, il Celtic Park, fu subito ribattezzato “Paradise”. Ma prima ancora di avere un proprio impianto (fu inaugurato nel 1901), la squadra aveva già vinto un trofeo, il County Anrim Shield e il campionato nordirlandese (Irish League) nel 18991900. E tuttavia l’epoca d’oro del club iniziò negli anni Venti e proseguì fino agli anni Quaranta. Nacque allora l’epopea del “Grand Old Team” capace di vincere campionati e trofei da fare invidia agli antagonisti storici del Linfield. Una rivalità accesa sin dalla fine del XIX secolo e che seguì ancora una volta la stessa «dicotomia cattolicaprotestante » di Celtic-Rangers in Scozia. Se i Celts rappresentavano i repubblicani del ghetto cattolico caratterizzato da una classe operaia spesso discriminata, i Blues esprimevano i valori dell’unionismo protestante in quanto sostenitori fedeli della Corona britannica e del suo esercito occupante.

La tensione arrivò alle stelle quando il Belfast per le continue vittorie spodestò il Linfield: l’odio tra le “Belfast’s Big Two” (i due club maggiori) esplose nel fatale derby del 27 dicembre del 1948. Il Celtic campione in carica, con sette titoli negli ultimi dieci anni, sembrava una squadra destinata a dominare ancora a lungo. E invece in quella stracittadina il Linfield pur in inferiorità numerica trovò un pareggio insperato e i tifosi Blues a fine partita si riversarono in campo. Non solo per festeggiare, ma anche per dar vita a una rissa spaventosa con una furibonda caccia agli avversari. L’obiettivo principale era Jimmy Jones, accusato di essere un provocatore, ma in realtà inviso perché giocatore protestante in una squadra di cattolici. Accerchiato da un gruppo di ultrà venne picchiato senza pietà, con i suoi compagni che cercavano di raggiungere disperatamente gli spogliatoi e la polizia che non riusciva a tenere testa ai facinorosi. Jones riuscì a salvare la pelle ma non la gamba barbaramente spezzata: carriera finita nonostante il ricovero d’urgenza. La gamba destra rimase comunque più corta della sinistra di qualche centimetro, costringendolo a zoppicare per il resto della sua vita. Ma rimasero gravemente feriti anche altri due giocatori come Robin Lawlor e Kevin McAlinden.

La vicenda sconvolse il mondo del calcio ma non l’Ifa, l’organismo del calcio nordirlandese, che non prese alcun provvedimento nei confronti del Linfield e dei suoi tifosi. Tra la rabbia e lo sdegno del club di West Belfast che lamentò anche una certa indolenza delle forze dell’ordine, l’ennesima ingiustizia non fece altro che replicare l’amara verità: «Il Belfast Celtic – scrive l’autrice – essendo un simbolo calcistico del repubblicanesimo irlandese era divenuto troppo ingombrante in quanto squadra vincente e di eccellenza appartenente a una comunità non tollerata in un territorio colonialista. Di conseguenza, le lobby di potere unioniste non volevano accettare il fatto che la minoranza repubblicana potesse emergere in qualche settore della vita sociale». Un clima di paura dopo quel derby si impossessò di tutti i contesti di stampo repubblicano e così la dirigenza della squadra bianco-verde decise di gettare la spugna. Quella sarebbe stata l’ultima stagione del leggendario Belfast Celtic che giocò la sua ultima partita nel campionato nordirlandese (l’Irish League) il 21 aprile del 1949. Da allora scese in campo solo per amichevoli prima di scomparire definitivamente nel 1960.

L’epilogo amaro dell’indimenticabile “Grand Old Team”. Tra il 1891 e il 1949, il Belfast Celtic vinse 14 titoli nazionali e 8 Irish Cups, tanto da farne, uno dei più titolati club europei estinti. Il glorioso Celtic Park divenne tristemente un cinodromo, prima di trasformarsi per sempre negli anni Ottanta in un centro commerciale. Eppure lo spirito dei Celts sopravvive ancora grazie alla Belfast Celtic Society, organizzazione che dal 2003 custodisce il patrimonio storico e culturale degli storici biancoverdi da cui è nato anche un Museo nel 2010. Il presidente oggi è Charlie Tully jr, il cui papà omonimo è stato bandiera sia del Celtic di Belfast che di quello di Glasgow. Di recente alla Bbc ha confessato: «Quando il Belfast Celtic ha chiuso i battenti si è creato un vuoto all’istante. E dopo 75 anni non è mai stato riempito. A quei tempi c’era un detto: “quando non avevamo niente, avevamo il Belfast Celtic”. Era più di una squadra di calcio, era parte integrante della comunità. Univa la gente, risollevava le persone quando c’erano disoccupazione, malattia, povertà. Era un faro». E quella luce non si è ancora spenta: il Belfast Celtic è scomparso ma non è stato mai dimenticato.

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