Non ho un idolo, nel calcio: ne ho una processione. A metterli tutti in fila, giovanissimi e superlativi, accompagnati dal primo exploit alla consacrazione (questa era la mia passione di cronista), ci si potrebbe scrivere una bella storia del calcio moderno: da Giannino Rivera a Sandrino Mazzola a Giacomino Bulgarelli, quasi coetanei, cresciuti insieme, fino a Diego Armando Maradona, Roberto Baggio e Francesco Totti, passando per due ragazzi che completavano il mio compito tattico: Antonio Cabrini e Marco Tardelli. Ma il mio primo amore è lontanissimo, io ero ragazzino e lui fu subito leggenda, Guglielmo Gabetto, il bomber del “mio” Grande Torino sparito a Superga nel ’49: un bel sorriso, quell’antiquata e audace capigliatura con la “riga nel mezzo”, un potenza inaudita, tanti gol... E così arrivo al dunque. Io tifo granata ma un giorno del Cinquantotto vedo in tivù sortire dal sottopassaggio di San Benedetto del Tronto uno dei miei ridimensionatissimi eroi – ti credo, il Toro non aveva più una lira – con una “T” grande stampata all’altezza del cuore. “T” come Talmone, Talmone Torino. Lì finì la mia passione granata. Lì cominciò la mia turbolenta storia con quel giocatore che più tardi - una ventina ’anni dopo - trovai CT della Nazionale, detestandolo fino a diventarne amico. Amico davvero: dico di Enzo Bearzot, il Vecio. Cominciammo male, perché io ero allievo e amico di Fulvio Bernardini e quando andammo in America con la Nazionale nel ’76 per il Bicentennial e Enzo gli fece le scarpe (manovre altrui, poi seppi, non sue) non gli risparmiai critiche feroci sul “Guerino” che avevo appena ereditato da Gianni Brera, un altro che di Bearzot non era proprio entusiasta, anche perché il Vecio aveva un cantore nemico, Giovanni Arpino, che l’aveva immortalato in Azzurro tenebra. Nel calcio – come nella vita – son tanti quelli che godono ad attizzare il fuoco dove c’è un po’ di fumo, e subito duellammo per interposte persone, Enzo e io, finché un gentiluomo pose fine alla stupida vertenza dialettica. Eravamo a Budapest, qualche mese prima del Mundial ’78, a visionare un’avversaria dell’Italia, l’Ungheria, impegnata in un’amichevole con la Cecoslovacchia. Hotel Hilton di Pest, vigilia del match, dopocena nella vasta hall – gente che va, gente che viene – e a un certo punto Pier Cesare Baretti, il signor direttore di 'Tuttosport', vedendoci a tiro sbotta: «Ma è possibile che due persone intelligenti non riescano a chiudere una sfida ormai grottesca?». “Pierce”, un grande per bravura, serietà, sensibilità, provocò una stretta di mano e se ne andò, piantandoci in asso con quattro parole in punta di lingua. E finalmente ci parlammo, anche di brusco, fino a chiarire le nostre posizioni e l’equivoco iniziale; un cameriere scaltro aveva capito cosa stava succedendo e ogni quarto d’ora ci “cambiava” il whisky; arrivammo alle cinque del mattino e a un «buonanotte» con abbraccio. Io a mezzogiorno lasciai l’albergo per andare allo stadio e quando chiesi del signor Bearzot mi dissero che s’era sentito male e restava a letto. Ah ah! Ho voluto bene a Enzo come a un fratello maggiore. Nei giorni del Mundial di Spagna non l’ho mollato un minuto e l’ho accompagnato con la forza dell’amicizia e della mia penna che andava scandalizzando tutti i media disfattisti fino al trionfo; ma già prima, a Buenos Aires ’78, avevo adottato la sua idea di calcio così semplice da esser rivoluzionaria; la chiamarono «Zona Mista», era invece soltanto la costruzione di un progetto impossibile passando dagli Uomini. Voi non ci crederete, ma era proprio quello il disegno del Vecio, che lasciò a casa talenti e campioni indiscussi perché non erano «suoi», ragazzi vicini per carattere, cultura, sensibilità, gente «da squadra»; e mi stupiva l’ignoranza di tanti colleghi – giovani e vecchi – che non avevano mai approfondito il senso delle vittorie dell’Italia del ’34 e del ’38: a me Vittorio Pozzo, che ho ben conosciuto e rispettato come un Maestro, aveva fatto lo stesso discorso, campioni ma uomini, a cominciare da Peppin Meazza, il Balilla. E un’Italia un po’ così... Credo che sia difficile spiegarla anche oggi, questa storia di vittorie Mondiali (ci metto anche quella di Marcello Lippi a Germania 2006), a chi vive di schemi e moduli, a chi racconta il calcio “a tre” o “a quattro”, come se fosse storia di numeri e non di uomini. Andatevi a rivedere, alla fine, le piccole grandi storie di Zoff, Gentile, Cabrini... di Antognoni e Pablito Rossi, di Tardelli e Graziani, di Altobelli, dei Marini e Selvaggi e Causio, di Bruno Conti che saltava in braccio a Bearzot chiedendo protezione paterna, lui assemblatore di uomini e di idee... Eccoli tutti quei ragazzi che il popolo e la gente riconobbero «Italiani Vittoriosi», in un Paese proclive alla disfatta, tant’è che il presidente più scaltro, Pertini, li volle con sé nel ritorno in Patria (cominciò allora ad esser richiamata così, l’Italietta) in una partita a scopone ormai storica, e poi nel tripudio di tricolori ripescati in soffitta, odorosi di naftalina e vogliosi di vento. Nell’amicizia con Bearzot racchiudo da tempo la mia modesta storia di cronista elevandola a prezioso frammento di gloria come se a uno scalatore alpino fosse toccata un’ascesa audace ma felice all’Evertest. Seppe far tutto questo un uomo semplice e onesto, dotato di una cultura essenziale – il liceo classico, Orazio, Tibullo, Virgilio, Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi – e una capacità infinita di sopportazione che gli impedì, sempre, di cercar vendetta contro gli stupidi e i finti potenti che li assecondavano. Non mi ascoltò quando gli suggerii di lasciare la Nazionale e cavalcare il successo anche per far denaro come famiglia meritava; volle tramontare a Mexico ’86 con gli Azzurri mentre i mariachi cantavano le imprese di Garibaldi e singhiozzavano Guadalajara. Perfettamente conscio di avere interpretato il ruolo di un Italiano Insolito, non sollecitò ne ebbe onori, accettando ancor vivo l’omaggio di chi l’aveva deriso e insultato e preparandosi a subirlo anche da morto. Scusate se gli ho voluto tanto bene.
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