Una Coppa Italia è già lì, all’ombra dei nuraghi. Ma ora c’è da difendere una storica qualificazione agli ottavi di EuroCup e continuare a stupire in un campionato che dopo anni di dominio senese autorizza sogni di gloria. Per la prima volta il basket italiano di vertice vira a gonfie vele verso la Sardegna grazie alla Dinamo Sassari e al suo navigato timoniere, Romeo Sacchetti, detto “Meo”, 60 anni, originario di Altamura, che da giocatore, in canotta azzurra, conquistò titolo europeo (1983) e medaglia di argento alle Olimpiadi di Mosca (1980). Cuore, muscoli e cervello, in campo e adesso in panca. Da quando nel 2009 è sbarcato in terra sarda ha traghettato Sassari dalla Legadue ai vertici del massimo campionato. E ora ridisegna la geografia della nostra pallacanestro al comando di un’allegra brigata che espugna palazzetti blasonati a suon di “bombe” (come il record di 17 triple su 23 rifilate a Varese). Una pallacanestro di attacco, ubriacante come il Cannonau, sta mandando in delirio un’intera regione che forse non viveva quest’entusiasmo sportivo dai tempi del Cagliari dello scudetto (1970), quello di Manlio Scopigno e “Rombo di tuono” Gigi Riva.«È vero - ammette Sacchetti -. Se prima eravamo seguiti solo a Sassari e dintorni, ora arrivano autobus da tutta l’isola. Il nostro Palaserradimigni non ce la fa più. La società ha dovuto stoppare gli abbonamenti per dare la possibilità a tutti di venire vederci almeno una volta. Ma so che trovare il biglietto è un’impresa».
Dan Peterson ha detto che “il basket ha finalmente colonizzato la Sardegna”.«Il basket di un certo livello mancava in questa regione. Giriamo spesso per l’isola e ovunque, anche a Cagliari, siamo stati accolti con grande entusiasmo. La gente sarda è orgogliosa per quello che stiamo facendo. In una terra che sta patendo la crisi ridare entusiasmo attraverso la pallacanestro ci dà una marcia in più».
Sono le motivazioni il turbo della Dinamo?«Abbiamo buoni giocatori, ma soprattutto ottime persone. La conquista della Coppa Italia ci ha senz’altro caricato. Ma i nostri non sono miracoli. Ci sono dietro anni di lavoro. E io non dimentico l’emozione della promozione in serie A».
In squadra ci sono i due cugini Diener, lei e suo figlio Brian... La Dinamo è una grande famiglia?«La società ha creato un ambiente sereno e si è formato un gruppo che si diverte e fa divertire perché ognuno si sente protagonista. Ci si aiuta tutti, non mi piacciono i giocatori che scaricano le colpe sugli altri: è un atteggiamento che fa più danni di un tiro sbagliato».
Lei esalta sempre il collettivo, ma Travis Diener sembra oggi il vostro Rombo di Tuono.«Certo lui si è guadagnato la ribalta, ma anche suo cugino Drake. Lui è tornato a giocare dopo il morbo di Chron all’intestino che gli ha fatto perdere 30 kg in 9 mesi: è una di quelle persone con una grinta che non può non conquistarti».
Anche la storia personale di Meo Sacchetti non è stata facile.«Sono nato da una famiglia di profughi originari di Belluno. I miei erano andati a lavorare in Romania e finita la guerra mio padre volle tornare in Italia perché si sentiva italiano. Abbiamo girato un po’ e io sono nato in un campo profughi di Altamura. Ma mio padre è morto quando avevo sei mesi. Da lì poi ci trasferimmo a Novara da mio fratello. Non credo però di aver avuto un’infanzia difficile. Anzi. La mia famiglia posso solo ringraziarla. Pur essendo povera mi ha dato quella serenità e quella testardaggine per realizzare un sogno: giocare alle Olimpiadi con gente che avevo visto soltanto alla Tv».
Una carriera partita dall’oratorio…«Sì, dai salesiani di Novara. L’oratorio aveva dei canestri all’aperto e il sacerdote ci aveva messo un faro per allenarci anche di sera. Peccato che oggi gli oratori non sono più considerati come una volta. Sono stati una fucina per la pallacanestro e ottimi centri di aggregazione, specie per chi non aveva possibilità. Ma confido molto in papa Francesco, incarna una Chiesa che sta tra la gente ed è attenta ai poveri».
Aveva cominciato con il calcio però.«Il basket è uno sport avvincente, non ci sarà mai uno 0-0. E il nostro è ancora un mondo dove puoi portare i bambini a vedere le partite».
Che cosa manca oggi al basket italiano?«Non curiamo più i settori giovanili da cui una volta uscivano grandi giocatori. Adesso ci sono poi troppi stranieri. E la pressione dei risultati non ti permette di lanciare tanti giovani italiani».
Lei ha dedicato la vittoria in Coppa Italia a sua moglie.«Sì, è una donna meravigliosa, mi ha dato tre figli fantastici e aver incontrato una persona così mi ha reso senz’altro migliore».
Come si fa a gestire un figlio in squadra?«Di certo è più penalizzante per Brian. Pretendo sempre tanto da lui perché il gruppo non lo veda come il figlio dell’allenatore. Ma lui l’ha capito e anche i suoi compagni».
Oggi è più difficile essere allenatore o papà?«Lo sport a livello professionistico è sempre più esasperato. Ci dimentichiamo spesso che stiamo parlando di un gioco e siamo pur sempre dei privilegiati. Essere papà è più difficile perché hai la responsabilità di una vita».
Dopo aver battuto Milano e Siena, la parola scudetto è ancora impronunciabile?«So che i nostri tifosi ci credono. Ma dobbiamo prima raggiungere i playoff. Però Milano è ancora la favorita d’obbligo».
Come riesce a mantenere questa calma?«Ho avuto la fortuna di avere i migliori allenatori italiani da Gamba a Guerrieri. Mi piace un basket spettacolare e l’agonismo pulito di sport faticosi come il rugby o il canottaggio. So che le vittorie si costruiscono in silenzio. Ho comprato una casa in campagna, mi piace lavorare in mezzo alla natura. Lì mi ricordo che solo con i grandi sacrifici si può prendere il largo».