giovedì 5 settembre 2024
Partendo dalla storia vera di un incidente aereo accaduto nel 1977 e unendo realtà e finzione, in "Quelli che restano" l'autore olandese parla della perdita, della solitudine e di come compensarle
Lo scrittore olandese Gerbrand Bakker

Lo scrittore olandese Gerbrand Bakker - Bart Koetsier

COMMENTA E CONDIVIDI

L’8 settembre nell’aula magna del seminario vescovile di Mantova, in occasione di Festivaletteratura, Gerbrand Bakker, uno dei più raffinati scrittori olandesi contemporanei, parlerà del suo ultimo libro, appena uscito in Italia, Quelli che restano (Iperborea, pagine 314, euro 19), ma anche di come noleggiando una bici nella turistica Amsterdam e pedalando per appena mezz’ora sia possibile ritrovarsi immersi nella più idilliaca campagna: «In un certo senso – dice l’autore, ex giardiniere, che ha trascorso l’infanzia in una fattoria e conosce bene la parte settentrionale dei Paesi Bassi – ho bisogno di queste cose nei miei libri, di questi paesaggi, perché voglio focalizzare l’attenzione sui dettagli, sulle cose vere, e in una grande città uno può facilmente lasciarsele sfuggire. Parlando in senso figurato, voglio disfarmi del rumore». È procedendo per sottrazione, perciò, che Bakker in questo ultimo libro parla dell’assenza, dei modi per compensarla, del dolore della perdita. Lo fa raccontando di Simon, che vive ad Amsterdam sopra al negozio di barbiere in cui lavora, che ha ereditato dal padre e dal nonno. Il padre non l’ha mai conosciuto, perché è morto dopo il concepimento in un incidente aereo a Tenerife, nel 1977, quando due boeing si scontrarono all’aeroporto di Los Rodeos, uccidendo quasi seicento persone. La madre di Simon non ne parla mai, presa dalla sua attività di terapista per ragazzi con problemi mentali, accetta che il figlio la aiuti, ma non è disposta a dirgli nulla sul padre. Ad affiancare il protagonista nelle ricerche c’è uno scrittore, somigliante allo stesso Bakker, anche lui ossessionato dal disastro aereo e deciso a scrivere un romanzo su un barbiere. In questo modo realtà e finzione si mescolano, raccontando anche una storia sulla solitudine e sui modi per fuggirne, sui legami famigliari, sui traumi collettivi e individuali.

Come è nata l’idea di questo libro?

«Volevo scrivere di questo incidente di Tenerife. Non è mai stato trattato da uno scrittore olandese, il che mi ha stupito. Perché no? Il più grande disastro aereo di sempre? Soprattutto se lo si confronta con il modo in cui oggi trattiamo disastri: tutta l’attenzione, il dolore collettivo, la smania di creare un campo commemorativo. Mi è sempre dispiaciuto per queste povere persone dimenticate».

Può un padre sconosciuto cambiare la vita di un bambino?

«Penso che ci sarà sempre un momento, prima o poi, in cui si inizierà a interessarsi alla “persona scomparsa”. È il luogo da cui provieni, è la tua carne e il tuo sangue. Simon è sempre stato riluttante a farlo, perché ha sempre pensato che il dolore per la scomparsa del padre fosse della madre. Nella gerarchia del dolore, la madre è la persona più importante. Ma anche in questo caso arriva un momento in cui uno, in questo caso Simon, si rende conto che tutti hanno il diritto di soffrire».

La storia del disastro aereo raccontata nel libro, è una storia vera. Come ha messo insieme realtà e finzione?

«Semplicemente mettendo personaggi di fantasia in mezzo a questa realtà e vedendo cosa ne veniva fuori. Nel cimitero di Westgaarde, ad Amsterdam, c’è una lapide in mezzo al verde con un solo nome. Ho cambiato questo nome e l’ho trasformato in un personaggio di fantasia che va in vacanza con Cornelis, anche lui un personaggio di fantasia. Si tratta poi di capire come inserire i fatti in un’opera di fantasia, e in questo caso si tratta di registrare le scoperte di Simon e del suo amico scrittore».

Nel libro lei descrive la storia di una famiglia che ha dovuto affrontare una catastrofe. Chi e cosa determina ciò che facciamo e che siamo? Crede nell’autodeterminazione o pensa ci sia qualcosa d’altro?

«Quando scrivo mi piace giocare con la tensione tra entità: autodeterminazione, destino e spiritualità. Credo che in questo caso l’attenzione si concentri maggiormente sul destino. Simon, il protagonista, è un “indolente”, quindi non c’è molta autodeterminazione; finché non inizia a provare attrazione per Igor, un bellissimo ragazzo incontrato in piscina. Lo stesso vale per il padre, credo: stava solo facendo il suo lavoro e il marito, finché non decide di scappare di casa e finire su un’isola straniera dove presto si rende conto che per il resto del mondo è morto, il che apre nuove possibilità. Quindi due volte il destino, sia per il padre che per il figlio. Ho lasciato di proposito alcune cose non spiegate in questo romanzo, perché anche nella vita reale molte cose restano senza spiegazione: accadono e basta, casualmente. Allora perché gli scrittori di narrativa hanno questo bisogno generale di spiegare tutto? Di rendere un romanzo come un cerchio perfetto? Io ho cercato soprattutto di divertirmi scrivendolo».

Il suo è anche un libro sui “se”, sulle sliding doors. Senza quella catastrofe, cosa sarebbe stato diverso?

«Tutto sarebbe stato diverso, no? Per prima cosa, credo che Cornelis sarebbe tornato a casa dopo le vacanze. Simon probabilmente non avrebbe fatto il barbiere, perché si sarebbe ribellato al padre, come fanno i figli nei romanzi».

Il tema delle coincidenze, dei dettagli, delle piccole cose che cambiano la vita, descrive bene ciò che la scrittura fa. Un personaggio del libro è uno scrittore, qualcuno che racconta storie alle persone. L’altro un barbiere, qualcuno che ascolta le storie delle persone.

«Io cerco di pensare il meno possibile mentre scrivo, cerco di lasciare che le cose arrivino e basta. Tra il mio ultimo romanzo e il precedente ci sono dodici anni. In questo periodo ho scritto tre libri autobiografici, simili a diari. Avevo bisogno di questo scrittore, che ovviamente mi assomiglia molto, per poter fare la transizione dalla saggistica alla narrativa. Ricordo che il suo ruolo si è fatto sempre più grande: all’inizio pensavo che lo scrittore fosse solo uno dei clienti di Simon, poi ho scoperto che questo scrittore di fantasia poteva scrivere qualcosa che io, come “scrittore vero”, difficilmente avrei potuto fare: scrivere la vita di Cornelis dopo il disastro. Dove finisce lo scrittore di fantasia (che rimane senza nome) e dove inizia lo scrittore in carne e ossa (che sarei io)?».

Nel libro lei dice che la scrittura «descrive qualcosa che è più importante di ciò che accade realmente. Che la scrittura prescinde dalla realtà. Che nella scrittura tutto è possibile». Che cos’è quindi la scrittura per lei?

«Se ricordo bene è questo scrittore di fantasia a dirlo, quindi non posso prendermi tutta la colpa... Credo che l’ultimo di questi tre punti sia per me il più importante. Credo si possa scrivere di “tutto”, ma credo anche che la tranquillità, la calma, l’assenza di trama possano essere “tutto”; si tratta solo di permettersi di scriverlo, di aprire qualcosa in se stessi per poterlo scrivere».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: