venerdì 5 luglio 2024
"Azzurro tenebra" è l'unico vero romanzo calcistico della letteratura italiana, opera dello scrittore Giovanni Arpino che racconta il Mondiale del '74 e una disfatta analoga all'Euroflop di Spalletti
Lo scrittore Giovanni Arpino (1927-1987) autore del romanzo calcistico "Azzurro tenebra" (minimum fax)

Lo scrittore Giovanni Arpino (1927-1987) autore del romanzo calcistico "Azzurro tenebra" (minimum fax) - undefined

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Non ci poteva essere un momento più catartico per il calcio italiano, specie dopo la clamorosa débâcle della Nazionale di Luciano Spalletti agli Europei in corso in Germania, per leggere o rileggere un libro unico e impareggiabile come Azzurro tenebra di Giovanni Arpino (1927-1987). Oltre un secolo di storia di cuoio italica ha espresso qualche scampolo di buona letteratura calcistica: poesia raboniana, saggistica ghirelliana e racconti lunghi persino gaddiani (leggasi il suo calcio fiorentino), ma un solo vero romanzo degno di questo nome figura in una ipotetica antologia settoriale, appunto Azzurro tenebra pubblicato per la prima volta da Einaudi nel 1977.

"Arp", il principe degli irregolari del '900

Arpino è uno degli autori più irregolari, ma anche più creativi, del nostro Novecento letterario. A quel romanzo sul calcio giunse dopo un decennio di intenso apprendistato iniziato nel 1959 con il sorprendente La suora giovane, passando per il più autobiografico dei suoi romanzi, L'ombra delle colline (Premio Strega 1964) per arrivare all’appuntamento da “inviato-narratore” del Mondiale di Germania 1974 (fonte di ispirazione di Azzurro tenebra) con la stesura quasi definitiva di Domingo il favoloso che Einaudi avrebbe pubblicato nel ‘75. Pertanto invitiamo, per l’ennesima volta, i docenti dei licei dal cuore impavido ad approfondire questo autore difficilmente collocabile tra le patrie lettere, per proporlo ai loro studenti della Z generation che - liberati dal rapimento perenne dei social - pare siano ancora leggermente ammaliabili dallo sfondo vitreo pallonaro e magari anche dal calcio dei fuoriclasse della letteratura. Portare il fuoriclasse Arpino tra i banchi sarebbe comunque una scommessa vincente, e andrebbe fatta cominciando proprio da un testo sempreverde come questo, che con il solito coraggio selettivo ora viene riproposto dalle edizioni minimum fax (pagine 283. euro 17,00) con una prefazione scritta da un arpiniano di ferro come Massimo Raffaeli, senza offesa per nessuno l’ultimo dei critici letterari militanti.

Lo stile originale di un narratore prestato al giornalismo sportivo

Un titolo, Azzurro tenebra che è entrato in scivolata nel gergo e nel lessico familiare del giornalismo sportivo per sottolineare le avversità cicliche della Nazionale di calcio, specie quando perde e viene clamorosamente eliminata, assurgendo ad affare di Stato dalle ripercussioni politiche imponderabili. E questo scenario da teatrino dell’assurdo, Arpino - che possedeva un occhio attento al sociopolitico non meno lungimirante e attento dell’altro “Poeta del gol”, Pier Paolo Pasolini (con cui non mancarono le polemiche anche sul campo calcistico) - ce lo raccontava con cinismo realistico già 50 anni fa. Lo strumento è un romanzo che volutamente è il ritratto d’autore impietoso di quella prima Repubblica fondata sul pallone. Un sistema perverso che preannunciava derive inarrestabili, a cominciare dalla categoria dei giornalisti sportivi in cui lo scrittore torinese, juventino di fede ma devoto al mito del Grande Torino, era entrato a far parte da battitore libero collaborando, dal 1969, a “La Stampa”. E all'interno della bolgia redazionale in trasferta in Germania per seguire le presunte imprese di “Golden Boy” e “Bomber” (arpinismi che nel romanzo diventano i personaggi Gianni Rivera e Gigi Riva), distingue kantianamente tra le “Jene”, i biechi sobillatori che alimentano il mito calcistico, e le “Belle gioie”, razza infima di ipocriti «costruttori di alibi», che garantiscono la proliferazione o quanto meno la conservazione del sistema stesso. Una smitizzazione degli organi di informazione in pressing sul clan azzurro che diventa puro teatro nei dialoghi beckettiani con il suo donchisciottesco Bibì, il collega de “La Stampa” Bruno Bernardi, «un fratello, un giovane, un compagno di diecimila viaggi, tremila partite, milioni di discussioni».

Corsi e ricorsi storici da Germania '74 a Germania 2024

​Cambiano i nomi degli interlocutori e dei personaggi della commedia buffa del pallone “italiota” (altro arpinismo), ma le discussioni, l’arsenico e i vecchi concetti rimbalzano dall’Azzurro tenebra di ieri a quello che stiamo vivendo noi orfani dell’Euroflop. Il romanzo denuncia l’eterno federalismo che ha il suo terminale nelle gesta assai poco eroiche degli azzurri di Ferruccio Valcareggi che, reduci dal secondo posto di Messico ’70, si fecero scacciare in un lampo dai Mondiali del ‘74. Corsi e ricorsi tenebrosi e peccato non ci fosse neanche l’ombra di un Arpino nel ritiro macabro di Iserlohn, quello della fresca disfatta azzurra agli Europei di Germania 2024, che ha visto l’altrettanto repentina e traumatica eliminazione dell’Italia di Spalletti. Mezzo secolo fa il palco della recita narrativa di Arpino era immerso in quei luoghi ameni della Caporetto del calcio italiano che Raffaeli descrive poeticamente come i «verdi smalti della Bassa Baviera e del Baden-Württemberg. Due sono gli epicentri: il Neckarstadion di Stoccarda, a un passo dal fiume che fu di Hegel e dei poeti romantici, e il ritiro di Ludwigsburg che ospita la Nazionale italiana, un castello sperduto nei boschi in cui bruciò nell'orgia wagneriana, il sogno decadente di Ludwig, Luigi II di Baviera».
Dal sogno del signore di Baviera all’incubo dei tifosi italiani. Specie per quei milioni di connazionali emigrati in terra tedesca che vedevano nell’Italia del calcio una forma di riscatto sociale agli occhi dei teutonici padroni della fabbrica. «Provate a buscarle e gli stessi calabresi che lustrano Mercedes da queste parti vi mangeranno il cuore. Questo il chiodo che dovreste ficcarvi nell’anguria», ammoniva minaccioso Arpino che prefigurava la grande delusione collettiva, instillata da una Nazionale che portava sul petto il tricolore e il titolo di vicecampione del mondo conquistato a Messico ‘70 dopo la “partita del secolo” con i tedeschi, (l’epica semifinale del 4-3 rifilato proprio alla Germania padrona di casa e che vincerà il Mondiale del ’74) e poi la resa più o meno condizionata dalla stanchezza e dall’effetto Pelè nella finale persa contro il Brasile (4-1). Arpino di quella Nazionale aveva imparato a conoscere anche gli anfratti più nascosti, potendo confidare anche sull’amicizia speciale che aveva costruito con il coltissimo e raffinato Enzo Bearzot, il vice di Valcareggi, che nel suo romanzo diventa il “Vecio”, l’eponimo che poi al Mundial di Spagna ’82 lo consacrò condottiero silenzioso dell’Italia campione del mondo. E anche di quelle pagine di storia azzurra, finalmente illuminate, con qualche ombra (Italia-Camerun da leggere al fascicolo Mundial gate di Oliviero Beha), ma senza tenebre, Arpino fu protagonista traghettando il suo pensiero fuori dal coro e quella scrittura originale da “La Stampa” a “Il Giornale”, convocato su espresso invito direttoriale dell’amico Indro Montanelli. Un passaggio che fece di Arpino anche il degno antagonista dell’ex fraterno sodale letterario Gianni Brera (piccato dall’accusa di «stalinismo critico»?), il quale ruppe con l’amico “Arp” che fino ad allora aveva considerato il suo «Nobel personale».

Il Mondiale della vergogna italiota e la crisi di un sistema
Ma siamo andati oltre le schermaglie e le trincee della Caporetto italiana di quel Mondiale romanzato che si aprì con la vittoria facile dell’Italia contro la cenerentola Haiti. Un 3-1 bugiardo, con la squadra azzurra a pezzi, anche psicologicamente come testimonia lo scatto fotografico e d’ira di Giorgio Chinaglia campione d’Italia con la Lazio del ‘74 e bomber indiscusso che al momento della sostituzione mandò a quel paese il ct Valcareggi. Un vaffa in mondovisione come non si era mai visto, neanche quattro anni prima nei giorni tesi di Montezuma con lo psicodramma interno della “staffetta” Mazzola-Rivera. Due della lunga lista di sommersi e bocciati di Azzurro tenebra in cui Arpino salva solo, il Vecio, l’altro tecnico Carlo Parola detto “Galoises” dalla marca di sigarette che fuma, il suo amato Giacinto Facchetti (la corsa sfocata in copertina nella prima edizione Einaudi rimane un cult) e lo stimatissimo “San Dino” Zoff che contro gli umili haitiani perse l’imbattibilità che durava da 1.142 minuti: gol della bandiera del fantomatico haitiano Emanuel Sanon, che ancora oggi viene ricordato come un piccolo eroe esemplare del calcio caraibico. Un po’ come Gigio Donnarumma agli Europei, Zoff non poté evitare la sconfitta con la Polonia di Lato e Deyna e dovette assistere impotente a quell’inutile e “chiacchierato” pareggio con l’Argentina. L’intervento di Zoff in appendice a questa edizione di Azzurro tenebra denota anche capacità narrative insospettabili (chissà che “San Dino” non abbia qualche manoscritto chiuso da anni nel cassetto...) sia nella descrizione di Enzo Bearzot con la sua «onestà feroce» del buon padre di famiglia, che nel plauso critico dell’opera di Arpino a cui riconosce che il suo romanzo «per certi aspetti, sembra rispecchiare l’Italia di oggi. E qui devo aggiungere purtroppo». È il pensiero che ha trasmesso anche a Darwin Pastorin che giovanissimo venne assunto al “Guerin Sportivo” , il settimanale diretto da Italo Cucci, su segnalazione lungimirante del bracconiere di storie e di talenti Giovanni Arpino. Nel ’77 anno in cui esce Azzurro tenebra, Pastorin va a casa di Arpino per intervistarlo e sentire dalla viva voce dell’autore che «a parte qualche forzatura credo di aver scritto un romanzo comico. Persone che non si intendono di football lo hanno giudicato di una eccellente comicità».

Il fratello argentino Osvaldo Soriano

Parere condiviso dal suo “fratello argentino” Osvaldo Soriano. Di ritorno dalla sciagurata campagna di Germania Arpino aveva scovato e recensito (sulla Stampa del 29 novembre 1974) il romanzo Triste solitario y final (prima edizione Vallecchi) lamentando corrosivo come sempre: «È da giugno che il libro si trova (o dovrebbe trovarsi) negli scaffali degli “economici”. Ma non ho letto un rigo su questa storia eccezionale, veloce come un fumetto, esilarante, virilistica e amara. Soriano, giornalista sportivo e scrittore privo di tracce ereditarie, forse non riuscirà a ripetersi. Ma certo, nel filone eroico o elegiaco o di denuncia sudamericano, lui rappresenta il lato ariostesco: indispensabile rapimento della vita». Con Soriano, esule a Bruxelles e poi a Parigi per scampare al regime di Videla, nacque un carteggio in cui la passione per il bel calcio e la buona scrittura fanno da filo conduttore della loro affinità elettiva. Soriano incensa i grandi romanzi di Arpino come Il Buio e il miele che diventerà il suo romanzo più cinematografico: nel ‘74 Dino Risi lo porta sul grande schermo sotto il titolo Profumo di donna e nel 1992 nella versione hollywoodiana Scient of woman Al Pacino vince l’Oscar per la migliore interpretazione. Arpino ricambia e rincuora Soriano, colto da momentanea crisi da pagina bianca: «Lavora, sii felice anche se il mondo non vuole permetterlo... Il mondo morirà, la scrittura morirà, ma dobbiamo resistere e fare». La scrittura sarà l’antidoto al male incurabile che ucciderà Arpino il quale scrisse fino al pomeriggio prima di morire , il 10 dicembre 1987, annotando con fiero amore per la vita : «Mai una lacrima, rischia di annacquare l’inchiostro». Filosofia dell’uomo che ci ricorda «la vita o è stile o è errore». Azzurro tenebra non fu un mero esercizio di stile, come rinfacciava una critica perennemente nel pallone. L’unico vero romanzo italiano sul calcio rientra come ogni opera di Arpino tra i libri utili, anche perché lasciandoci ha lasciato inciso il senso della sua missione: «Lo scrivere inutile è la peggiore forma di tradimento che un uomo può inventare a danno di sé e degli altri. Scrivere romanzi per me significa portar testimonianza poetica nel mondo in cui viviamo».​

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