Una testa del faraone egizio Ekhnaton esposta nel 2009 a Torino
Attenzione! Non lasciatevi ingannare dal titolo in apparenza semplice, piano, quasi innocuo. In realtà questo è un libro duro, sottile, pericoloso. Jan Assmann, egittologo emerito dell’Università di Heidelberg, grande specialista di monoteismo e di tradizione mosaica, ha pubblicato in inglese due anni fa il libro che esce ora nella versione italiana dal titolo Verso l’unico Dio. Da Ekhnaton a Mosè (Il Mulino, pagine 226, euro 16,00) e che si potrebbe intendere come una tranquilla “passeggiata in pianura” dalla molteplicità all’unicità divina intrapresa alla fine del II millennio a.C. Ebbene: questo libro non offre quello che promette. Propone, per non dire impone, molto di più. Non si tratta per nulla di un itinerario semplice e, per così dire, “naturale”, “ragionevole”. È il nostro moderno razionalismo, che sarà anche postcristiano o magari addirittura acristiano e anticristiano ma che del cristianesimo certo non è immemore, a farci quasi istintivamente pensare così. Ma non solo il passaggio dal politeismo al monoteismo non è ovvio: esso è perfino incerto. Non si deve confondere la “monolatria” (adorazione di un solo dio) con il “monoteismo” (fede nell’esistenza di un solo Dio).
In tutta la Bibbia, la coincidenza tra queste due dimensioni non è affatto né chiara, né evidente, né coerente: il Dio che si rivela a Mosè sul Sinai non sostiene affatto di essere l’Unico, dichiara di essere quello che ha tratto gli ebrei dalla terra d’Egitto e impegna il Suo interlocutore a non adorarne altri. È un dio geloso, che non tollera né concorrenti, né tradimenti: sua è la vendetta. È un dio tribale e nazionale. Tutta la Bibbia è percorsa da una tradizione “elohista” – più enoteista che monoteista – che contende con quella “jawista”. Bisognerà aspettare il Deuteronomio e i libri profetici (si veda Isaia, 45, 18) per trovarci di fronte a un Dio universale, «Signore del cielo e della terra»). Secondo l’egittologo Assmann quello del faraone Amenhophis IV (sec. XIV a.C.), vale a dire Ekhnaton, è un vero monoteismo, come nel “Deuteroisaia” di circa otto secoli più tardi: per quanto il “suo” monoteismo identifichi l’unico Dio con un corpo celeste, il sole, e sia pertanto un elioterismo ben diverso da quello dell’ebraismo maturo.
Piano quindi con le dirette associazioni tra Ekhnaton e Mosè proposta da Giuseppe Flavio e ripresa sue millenni più tardi da Freud. A parte la questione che Ekhnaton è figura, ci ricorda Assmann, “esclusivamente storica” per quanto la sua tradizione sia stata negata, in Egitto, da una successiva damnatio memoriae, mentre Mosè è figura «esclusivamente della memoria», l’esistenza della quale non ha mai trovato il conforto di alcuna prova storica. Per quanto quindi l’“era assiale” che ha mutato i connotati del mondo antico e determinato i suoi nuovi fondamenti religiosi del mondo sia cominciata in Palestina con l’ebraismo e quindi con il cristianesimo – ma dal Settecento illuministico a Karl Jaspers si è sottolineato come verso il VI-V secolo a.C. dalla Cina all’India alla Persia alla Grecia si notarono innovazioni e trasformazioni simili, in qualche modo “indirizzate” al monoteismo, il passaggio definitivo e “irreversibile” dal primo al secondo si è compiuto solo tra I e VII sec. d.C., con il cristianesimo e l’Islam: ed è stato un passaggio dai connotati ora “evolutivi”, ora “rivoluzionari”.
Assmann – che, da buon egittologo, è un appassionato di cultura umanistica, illuministica e ovviamente mozartiana – dedica la parte che a mio avviso è la più originale e rivelatrice di tuto questo bello studio al capitolo VI, con la «corrente sotterranea di cosmoteismo egizio che ha continuato ad aggirarsi per l’Occidente» e quindi «l’egittomania europea», uno dei volti più caratteristici e rivelatori della cultura ermetista-europea (non dimentichiamo l’equazione umanistica tra il dio egizio Toth e il mitico Ermete Trismegisto coevo e amico di Mosè, eponimo della cultura che da lui ha preso il nome di “ermetica”). Ma infine, eccoci all’ultimo, inquietante e quasi dirompente capitolo. La religione in genere, quelle monoteistiche in particolare, sono o no in rapporto con la violenza? O si deve pensare – e Assmann vi protende – che la violenza appartenga non a quello della religione bensì a quello della politica, e che questa potrebbe addirittura essere antidoto contro quella? Diciamolo con chiarezza: questa è la parte più generosa, ma anche meno convincente di tutto lo studio assmanniano. E soprattutto allorché egli prende come guida sia pur contestata (ma anche ammirata e venerata) il più grande genio filosofico-giuridico di tutto il Novecento, Carl Schmitt, con la sua teoria dello Ernstfall, il “caso estremo”, lo “stato di eccezione”, nel quale una comunità - che si definisce dinanzi alla “diversità” rispetto all’“Altro” identifica appunto il “diverso” come il “Nemico”.
Schmitt pone in rapporto lo Ernstfall alla “sfera” del politico e al primato sulle altre sfere: il che, nel mondo moderno – con il suo “processo di secolarizzazione” – è possibile, laddove non lo è in altre culture e non lo era nel nostro medioevo nel quale il primato spettava a Dio e alla teologia. Ma Assmann evoca la prospettiva attuale (a nostro avviso fallace e sviante) del possibile “scontro di civiltà”, e alla luce di esso configura un Ernstfall religioso «che metta in movimento le dinamiche della polarizzazione » in vista di una “religione totale”, contro la quale egli auspica la tutela di una cultura di “tolleranza”. In verità, quel che sul serio sembra minacciare il mondo oggi non è la “rivelazione totale” (in greco Apokalypsis), bensì la perniciosa alleanza tra la “secolarizzazione”, il primato dell’economico e del tecnologico e la volontà di potenza che – invochi o meno Iddio – nulla ha di religioso e tutto di mondano e di materialistico.