venerdì 8 settembre 2017
A Rovereto, al Mart e a Casa Depero, due mostre sull’arte italiana fra le due guerre. Una eredità che supera le diatribe sul regime e primeggia nella storia europea del secolo scorso
Mario Sironi, «Venere» (1923 c.), particolare

Mario Sironi, «Venere» (1923 c.), particolare

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Parlare oggi di "richiamo all’ordine" può essere di nuovo un problema, ma di tipo diverso rispetto all’epoca postbellica quando essere stati pittori “classici” o novecentisti (il riferimento va al gruppo di Margherita Sarfatti) era quasi inevitabilmente sinonimo di collateralismo col fascismo. Ne pagò le spese più di tutti un pittore fascista “rivoluzionario” come Mario Sironi, non solo perché certi suoi dipinti murali commissionati dal regime vennero poi emendati dei simboli mussoliniani, ma perché cadde su di lui e la sua intera opera l’ostracismo degli antifascisti e resistenti (soprattutto comunisti), e questa scomunica durò per decenni, tant’è che Sironi, pur non sentendosi affatto demolito da quella damnatio memoriae, dieci anni prima di morire vedette a un antiquario di Londra, Eric Estorick, gran parte dei suoi fondi di atelier, centinaia di fogli e dipinti, perché evidentemente in Inghilterra, pur avendo combattuto il nazifascismo, non avevano certi pregiudizi. Naturalmente, in Italia il fascismo aveva lasciato drammi e ferite profonde, e questo bastava a cancellare dalla vista chi in qualsiasi modo si era identificato con esso.

È degno di nota che nel 1985, in occasione della mostra per il centenario di Sironi a Palazzo Reale, Giulio Carlo Argan dicesse: fu giusto mettere da parte Sironi, ma oggi è venuto il momento di riabilitarne l’opera perché è quella di un grande artista. Eppure il “comunista” Picasso aveva detto che Sironi era un artista di suprema statura, e non solo in l’Italia. Sarebbe dovuto bastare a mettere qualche pulce nell’orecchio ai benpensanti della moralizzazione italiana (già tra fine anni Quaranta e inizio Cinquanta, Guttuso & co. stavano prendendo le distanze da un’arte troppo legata alla politica: la polemica di Togliatti fu aspra, e lo stesso Vittorini disse che l’arte non doveva suonare il piffero della rivoluzione). Il punto di vista deformante, per così dire, era proprio quello dell’arte come “rispecchiamento” dell’ideologia o della lotta politica. Mussolini tuttavia non organizzò mai una mostra sul genere dell’Entartete Kunstnazista, perché era più colto e maggiormente consapevole che l’arte può essere un grande veicolo per rendere una immagine positiva del potere. E l’arte italiana fra le due guerre fu, rispetto a quella degli altri regimi totalitari, l’esperienza europea più importante per qualità e intensità espressiva, forza che le venne proprio da una idea di ordine e di misura che, certo, la retorica fascista usò a scopo monumentale, ma nell’intimo degli artisti era ancora una questione di statura umana (non di miti ideologici). Oggi parlare di «richiamo all’ordine» – dopo decenni di seduta psicoanalitica contro l’autoritarismo paterno – può essere rischioso perché nel nostro caos globale senza riferimenti etici condivisi il numero di quelli che auspicano soluzioni forti, pugno di ferro, progressiva gendarmizzazione delle strade e controllo tecnologico delle nostre libertà è in forte crescita (utili idioti di chi specula sulle nostre ansie e paure).

Una mostra come quella in corso al Mart di Rovereto sull’«eterna bellezza» (che in primavera era stata esposta a Madrid) in realtà ci aiuta a capire che ordine, armonia, misura, bellezza, classicità, metafisica, simmetria, antichità non sono affatto corrispettivi di pensieri e ideologie della forza, di un mondo che cercando stabilità la trovi in un sistema che metta fine al caos in modo autoritario. Non sono, ecco, un nuovo alibi per un universo totalitario. La tronfia retorica nazista è ben al di sotto di quella mussoliniana, l’architettura italiana molto al di sopra di quella nazista e di quella sovietica; la pittura e la scultura italiane fra le due guerre hanno una vitalità e una bellezza che non si ritrova negli altri paesi soggetti al totalitarismo. Perché? Perché sugli artisti italiani opera la riscoperta di una tradizione fondata sui valori di armonia, stabilità, classicità che sono la nostra storia (anche quando un artista gioca sulle forme anticlassiche). È questa tradizione che ha protetto l’arte italiana dalla retorica più stucchevole che troviamo altrove e fa del caso Italia un laboratorio storico che va studiato ancora per capire la nostra “eccezione”. La mostra degli Anni Trenta allestita a Milano nel 1982, alle prime luci della moda postmoderna, ebbe l’effetto di rimettere in moto il giudizio sull’arte fra le due guerre dalle ipoteche di una sinistra che dell’antifascismo faceva un uso miope. Rivedendo molte opere esposte al Mart ci si fa subito l’idea che la varietà artistica in quel periodo era tale da comprendere in sé metafisica e primitivismo, surrealismo e realismo magico, antico e moderno. Naturalmente, la foglia di fico indossata dalle due curatrici della mostra, Beatrice Avanzi e Daniela Ferrari, le trattiene dall’affrontare la questione “art & power” nel primo Novecento, forse anche in ragione del fatto che la mostra nasceva per essere prima presentata in Spagna.


Se noi oggi non sapessimo che una parte notevole di queste opere è stata dipinta durante il Ventennio, saremmo in grado di cogliere tutto il peso morale del fascismo sugli autori che le realizzarono? Anche volendo fare la critica al figurativo mentre in Europa le avanguardie avevano lasciato il segno di una progressiva demolizione dell’immagine umana dalle arti visive per una rappresentazione più psichica, concettuale e spirituale culminante nell’astrazione e nell’informale – opere come La matinée angoissante di De Chirico, Tombeau d’un roi maure di Savinio, la Figura con vaso e L’Architetto di Sironi, La moglie del poeta di Arturo Martini e il suo bellissimo busto di Nena, i dipinti di Casorati (tutti, forse per dire quanto sia ancora troppo poco considerato nel giudizio sul posto che gli spetta nella storia dell’arte italiana), Le donne con la chitarra di Campigli, il Ritratto di Laura Oppi, di Ubaldo Oppi ovviamente e di lui anche la grande tela dell’Adriatico, la metafisica “di paese” di Donghi e la metafisica crudele di Cagnaccio di San Pietro; e ancora Sironi, coi paesaggi metropolitani e Il porto, le nature morte di Severini e di Morandi, e quelle di De Pisis; e ho dimenticato altri non meno bravi... questi artisti “figurativi” oggi fanno grande l’Italia, la collocano ai vertici europei del primo Novecento con un’ampiezza che andrà riconsiderata.

Come pendant alla mostra del Mart, Casa Depero ci presenta una strana accoppiata (strana non tanto nei nomi, quanto nel contrasto fra le opere esposte), quella di Gigiotti Zanini e Tullio Garbari, due trentini che hanno dato un contributo importante all’universo “classico” di cui qui si parla. La casa del genio futurista già satura di cose lascia agli altri due uno spazio residuo: Zanini con dipinti di mediogrande formato e incisioni, dove risalta la dimensione metafisica del paesaggio e delle cose silenti; Garbari con una serie di piccole carte dipinte (quindici o venti centimetri per lato) dove il primitivismo del segno è il distillato spirituale delle forme e delle cose create. Garbari – non mi stancherò di ripeterlo (e per primo lo capì Edoardo Persico) – è un maestro della pittura italiana: morto precocemente nel 1931 ci ha lasciato quella Madonna della pace (oggi al Museo Diocesano) che è un capolavoro dell’arte europea, una di quelle opere che se venissero meno diminuirebbero la nostra comprensione della tenerezza divina per l’uomo. Impressionano questi disegnini per una forza monumentale che non ha nulla di retorico, ma dice proprio la grandezza umana, e la dignità delle piccole cose, la bellezza che risplende anche in un segno ritorto o in una forma povera. Garbari ci dice che la classicità non è anzitutto una declinazione di valori statici, ma una dimensione interiore, una misura dello spirito (che può essere affermata anche deragliando dai suoi limiti). Classico, sogno e meraviglia non sono fughe dal mondo o rifugi nel passato e nella memoria, sono spinte a riformare ogni volta il “canone” senza disperderne la sostanza.

Quando mi sono recato al Mart qualche settimana fa infuriava in Italia il dibattito scellerato sulla cancellazione dei simboli fascisti dalle opere d’arte (si pensi che proprio recentemente sono state tolte le parti aggiunte del dopoguerra per occultarne le tracce nel grande dipinto murale L’Italia fra le Arti e le Scienze, eseguito da Sironi nel 1935). Invece di nascondere i segni che la storia ci ha lasciato, pratica degna di uno Stato totalitario, sarebbe giusto dedicare più tempo a studiare come l’arte italiana, anche quando era al servizio del fascismo, abbia saputo mantenere l’equilibrio e la libertà che le venivano dalla sua storia millenaria, non dai proclami ideologici.

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