venerdì 17 febbraio 2017
Al San Domenico una vasta indagine sullo “Stile 1925”. Una espressione della crisi culturale ed etica europea
Dettaglio dall'opera di Tamara de Lempicka, «La sciarpa blu» (1930)

Dettaglio dall'opera di Tamara de Lempicka, «La sciarpa blu» (1930)

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Lusso glamour e modernità. Art Déco: anni Venti, con una coda fino ai Trenta inoltrati. Questo, in sintesi, l’orizzonte della mostra aperta da qualche giorno ai Musei di San Domenico di Forlì. Antonio Paolucci, che del comitato scientifico è presidente, tira un bilancio della “formula San Domenico”, che ha prodotto dodici mostre, concludendo, et pour cause, che questo modello di esposizioni ha proposto uno «scrutinio sistemico della Modernità». Il fatto è che a questa modernità, i Musei di San Domenico ci hanno girato intorno, senza prendere mai la strada definitiva verso il centro, senza andare al cuore del problema. Perché non c’è dubbio che questa mostra appena aperta sull’Art Déco e gli «anni ruggenti in Italia» sia un ulteriore volo di ricognizione su qualcosa che in realtà resta sepolto, come già nelle mostre sul Liberty e sull’epoca fascista – che doveva intitolarsi Dux e poi, per le proteste dei rossi di Romagna e i timori di nostalgia che poteva suscitare venne astutamente rinominata Novecento; ma pare che molti, fra i rossi di Romagna, ce l’abbiano ancora lì, sul gozzo, non riuscendo a perdonare quel tentativo di sdoganare l’arte in epoca di regime, peraltro sdoganata ormai da tempo.

A che cosa alludo? Alla questione che ancora rappresenta per l’Europa – sebbene sottovalutata –, la Grande Guerra, il suo lascito, o il suo marchio rovente, le cicatrici sullo spirito europeo, inizio di quella fase storica che coincide con la crisi (categoria nella quale ancora operiamo e di cui il postmoderno è stato una sorta di spuma di tutte le bizzarrie novecentesche). Nel 2014, visitando la mostra sul Liberty, mi venne da pensare che, cadendo l’anno dopo l’anniversario dell’entrata in guerra dell’Italia, sarebbe stata l’occasione giusta per tentare una mostra che mettesse a fuoco l’intreccio di cultura, arte, società in Europa e le conseguenze prodotte da quello che resta, a mio parere, ben più di un conflitto mondiale: Spengler subito dopo la guerra parlò di «tramonto dell’Occidente » come decadenza di una civiltà; e dieci anni dopo Heidegger con Essere e tempone delinea il processo che conduce al nichilismo. Sarà perché quell’evento tragicissimo mi è sempre sembrato più rilevante dell’altra grande guerra nell’orientare la coscienza moderna (non a caso tutte le avanguardie storiche sono nate, poco prima o poco dopo, in quell’intorno di anni), e in considerazione del fatto che una esposizione come quella sul Novecento, allestita nel 2013, indagava il legame fra «arte e vita in Italia tra le due guerre», ecco, tutto mi sembrava che dovesse completarsi e rivelarsi pienamente con una mostra specifica sull’evento che segnò tutti gli sviluppi degli anni Venti e Trenta, fino all’altra guerra che ne rappresenta un gigantesco conato. Parlando con Gianfranco Brunelli, il patron delle esposizioni forlivesi mi venne dunque spontaneo suggerire: «Perché nel 2015 non dedicare la mostra a quanto la Grande guerra ha prodotto sulla coscienza dell’arte europea?». Brunelli glissò, dicendo che progettavano altro, in particolare una mostra ambientata nel-l’arte sacra seicentesca. Mi rassegnai, evidente-mente quello della modernità era un filo che doveva interrompersi. Poi venne Boldini, poi Piero della Francesca e il Novecento, e adesso il Déco. Dunque, il filo conduttore era più teso che mai.

Il fatto è che se guardiamo a che cosa si è fatto in questi due o tre anni in Italia a proposito della Grande Guerra, dobbiamo constatare che l’argomento ha prodotto soltanto mostre d’occasione, mostre doverose e celebrative, ma prive d’interesse. Eppure è lì che tutto converge, prima e dopo. Basterebbe ricordare il peso del futurismo sul cambio di linguaggi comunicativi, dalla pittura alla pubblicità, con innovazioni che ancora oggi pesano nel nostro modo di esprimerci, per dire quanto sarebbe urgente una lettura nuova dell’opera di ostetrica della modernità che ebbe la Grande guerra anche nelle arti. Le mostre del San Domenico hanno tutte una nota ricorrente, l’esibizione muscolare. Si avverte l’enorme disponibilità di mezzi economici, pratici, relazionali che permette allo staff di disporre di prestiti importanti. Se si scorre l’interminabile sequenza di nomi del Comitato d’onore, si rimane intimoriti da tanto potere. La cura della mostra sull’Art Déco è di Valerio Terraroli, specialista della materia, che inizia in modo perfetto e chiaro il saggio con cui si apre il catalogo edito da Silvana: «Il glamour, inteso nell’accezione di fascino combinato a un atteggiamento snobistico, è la cifra del Déco». In questa definizione c’è tutto il dramma di una cultura, quella delle élite degli anni Venti, che non ha compreso quanto la Grande Guerra avesse reso traballante ogni pretesa di lusso e cinico ogni esercizio di snobismo. Possiamo dire che quest’arte ci sia ancora vicina? Che abbia un peso per noi? Naturalmente, come ogni “stileepoca”, anche il Déco ha avuto e avrà i suoi revival e i suoi collezionisti. Ma mentre l’Art Nouveau, o Liberty, o Sezessionstil, o Jugendstil che dir si voglia esprime una poetica della lineaenergia che dà forma ed è forma in se stessa; lo stile Déco, o 1925, è essenzialmente una esibizione di eleganza decorativa, uno stile decadente che rappresenta molto bene quel tipo di società “ristretta”, elitaria appunto, che non ha capito che il mondo sta andando verso una catastrofe più grande: Il Grande Gatsby, pubblicato da Francis Scott Fitzgerald nel 1925 è la narrazione perfetta di questo kitsch come carenza di etica e di verità (è il caso di ricordare che poco dopo verrà la crisi del ’29, i cui postumi gravi si verificheranno all’inizio degli anni Trenta?).

In mostra troviamo le opere di grandi artisti: Piero Portaluppi, Galileo Chini, René Prou, Mario Cavaglieri, Piero Marussig, Guido Cadorin, Anselmo Bucci, Alberto Martini, Luigi Gigiotti Zanini, Antonio Donghi, Mario Tozzi, Achille Funi, Ubaldo Oppi, Ram, Ferruccio Ferrazzi, Cagnaccio di San Pietro, Mario Sturani. Ma sono riconducibili a un’unica cifra stilistica che si possa dire stile Déco? Credo di no: credo che il nome di quello stile sia fittizio come il lusso che vuole rappresentare. Deriva dall’Exposition Internationale des Arts Décoratifs et Industriels Modernes, che si tenne a Parigi nel ’25. Anche in Italia, il meglio si ha negli oggetti, nelle ceramiche, nella grafica editoriale e cartellonistica. È appunto uno stile “di superficie” e, come tale, pretenzioso e snobistico. Questo non toglie che abbia lasciato opere notevoli: i vasi in vetro soffiato di Vittorio Zecchin o di Carlo Scarpa, le morfologie di Ugo Zovetti, le divertenti nature morte in vetro di Napoleone Martinuzzi, le architetture di Portaluppi (modernista e già postmodernista, come nella facciata degli Uffici S.T.T.S a Milano, versione 2), le lacche di Tito Chini (raffinatissima e orientalista quella del Fondale marino), l’Isotta Fraschini inevitabilmente, le ceramiche di Pietro Melandri, i bozzetti per la Turandot di Umberto Brunelleschi e Galileo Chini, la coppa delle violette di Cambellotti, le Maschere di Casorati, le lacche di René Prou; ma l’approdo finale di quello stile è la prosaica e fumettistica sensualità formale di Tamara de Lempicka. E Gio Ponti.

Chi è stato capace di giocare col Déco meglio di lui? E infatti la mostra è disseminata di decine di sue opere, così riconoscendogli un ruolo sul quale lui stesso avrebbe ironizzato. Ponti, cultore della bellezza elegante, della misura classica, della decorazione sofisticata, ma anche genio sulfureo e graffiante, finisce sempre per guastare la festa. È l’artista ironico che per Richard-Ginori esegue urne con disegni d’aurea caricaturalità, che decora un otre in maiolica con una corda sfibrata e poi esegue piatti decorati con grazia settecentesca, oppure raffigurando due amanti dalla fisiognomica tutt’altro che classica, anzi vagamente banditesca. Ogni volta, Ponti gioca col compito che si è assunto, è l’unico vero Déco di questa mostra ma anche colui che smontala presunta volontà di status di quello stile. Il lusso, come si suol dire, si paga, e il suo prezzo è la libertà ironica e critica dell’artista, il quale rende esteticamente piacevoli idee e forme che in realtà mettono alla berlina le stesse élite che le hanno ispirate.


Forlì, Musei di San Domenico

ART DÉCO Gli anni ruggenti in Italia

Fino al 18 giugno

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