sabato 16 ottobre 2021
Il teatro milanese, dove l’opera mancava da 17 anni, torna con i titoli di Puccini “Suor Angelica” e “Gianni Schicchi” diretti da Beatrice Venezi, che fungono «da palestra per giovani promesse»
Il “Gianni Schicchi” diretto da Beatrice Venezi al Teatro Arcimboldi

Il “Gianni Schicchi” diretto da Beatrice Venezi al Teatro Arcimboldi

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«Siamo dei coraggiosi. Dopo due anni di pandemia come riapriamo? Riportando all’Arcimboldi l’opera lirica che qui mancava da 17 anni. E mica con due titoli da botteghino e interpreti affermati, ma con Suor Angelica e Gianni Schicchi di Puccini, due opere palestra per giovani promesse del futuro». Aveva ragione il regista Davide Garattini Raimondi, parlando alla stampa alla vigilia dello spettacolo che giovedì sera ha quasi riempito la platea del TAM Teatro Arcimboldi Milano (2.376 la capienza pre Covid): gli elementi c’erano tutti per rendere la sfida improbabile. Ma proprio l’entusiasmo tipico dei pionieri l’ha resa in gran parte vincente: la direttrice d’orchestra Beatrice Venezi e il regista hanno provato «tutti i giorni fino a mezzanotte » con il cast di giovani, emersi lo scorso maggio proprio agli Arcimboldi dal “Premio Etta e Paolo Limiti” per voci liriche, cimentandoli in due partiture tra le più complesse della lirica.

Operazione perfettamente riuscita in Suor Angelica, dove le undici suorine chiamate a riempire un palcoscenico solitamente calcato dai grandi musical si aprono e si chiudono (sia vocalmente che fisicamente) seguendo a perfezione gli slanci emotivi della musica. «La scrittura di Puccini esige una varietà psicologica costante, ogni frase trasmette un’attitudine diversa», aveva sottolineato Beatrice Venezi, tra le rare donne al mondo a dirigere orchestre a livello internazionale, «e Puccini rende in maniera straordinaria la psicologia soprattutto dei personaggi femminili. Forse per questo tra le righe del pentagramma una donna riesce a leggere qualcosa in più».

Sotto la sua bacchetta l’Orchestra Filarmonica Italiana ha magistralmente espresso tanto l’intima drammaticità di Suor Angelica, quanto la pirotecnica frode del ladro fiorentino Gianni Schicchi, gettato all’Inferno da Dante Alighieri e riscattato da Puccini nel suo capolavoro. Intensa Diana Rosa Cordenas, una Suor Angelica capace di trascinare il pubblico nelle sue tempeste interiori e impavida nell’aggredire l’ampia estensione vocale richiesta dallo spartito. Angelica, giovane nobile costretta ai voti dopo una maternità clandestina, da sette anni supplica la Madonna di avere notizie del suo bambino. Finché irrompe in convento la zia principessa, venuta per imporle di rinunciare alla sua eredità: sarà lei a dirle spietata che il piccolo è morto. Suor Angelica si avvelena per raggiungerlo in cielo, ma prima di morire chiede angosciosamente perdono alla Vergine, che le appare portandole il bambino. Un’apparizione genialmente resa in scena con fasci di fibre ottiche, “scultura di luce” dell’artista Carlo Cinque.

Se qui dominano il bianco e nero e la devota compostezza delle suorine, Gianni Schicchi è esplosione di colori e dinamismo: «Sono andato in due direzioni opposte – spiega Garattini Raimoni al suo ottavo Schicchi – , per Suor Angelica metto in scena la claustrofobia, per Schicchi la desolazione nel grande spazio, cioè i nostri mondi interiori nei due anni di pandemia, quando eravamo chiusi dentro ma anche soli in spazi diventati enormi». Il tutto, assicurava il regista, nel rispetto di Puccini, «calcare la mano su quella centrifuga di emozioni che è Schicchi va fatto con intelligenza, se no si rischiano baracconate che mettono in difficoltà gli artisti».

Ma questo a tratti è avvenuto, con i cantanti (vestiti da clown) costretti appunto a saltelli e pagliacciate distraenti, che bene non hanno fatto alla loro vocalità e molto hanno rubato al libretto di Giovacchino Forzano. «È una partitura molto difficile per complessità ritmica e armonica», aveva predetto Venezi, e proprio il guizzo continuamente sorprendente di musica e testo ne è uscito a tratti sacrificato dal cromatismo esasperato della regia. Del tutto inesistente in scena la “Firenze d’oro” cantata da una magistrale Francesca Pia Vitale (Lauretta) e da un bravissimo Giuseppe Infantino (Rinuccio). Sul cast delle giovani promesse (ottimo anche il Betto di Lorenzo Mazzucchelli), qui affiancate da un professionista come Domenico Colaianni (Gianni Schicchi), Beatrice Venezi scommette sicura: «Ho individuato almeno tre voci notevoli, sono certa che avranno un gran bel futuro».

E ora? Il TAM non si ferma qui e ha tutta l'intenzione di restare la "seconda casa" della Scala, promette Sabino Lenoci, responsabile del settore Musica sinfonica e lirica. «Purtroppo in passato il Covid ha bloccato l'Elisir d'amore di Donizetti", ma presto porteremo su questo importante palcoscenico la Cenerentola e il Turco in Italia di Rossini. Ma la vera sorpresa potrebbe essere riportare a Milano la bacchetta di Riccardo Muti. La vocazione degli Arcimboldi sarà sempre di più quella di formare nuovi talenti lirici e dare loro concrete possibilità di carriera qui e all'estero. Queste due opere ora andranno nei teatri nazionali della Serbia e della Macedonia ed è solo un inizio». Presente nel pubblico Novak StaniŠić, presidente della Fondazione per lo Sviluppo economico culturale di Belgrado, dove Suor Angelica e Gianni Schicchi approderanno a breve: «In Serbia l'opera italiana è molto popolare, soprattutto Giuseppe Verdi. Questi due titoli mancano da dieci anni da Belgrado ma sono un repertorio molto amato, i mesi prossimi li vedremo nei nostri teatri: l'amicizia tra i popoli e le culture nasce anche dal cuore della grande musica».






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