Un boato. E il palcoscenico si riempie d’acqua. Cade dall’alto, dal grande muro di plexiglass che incombe sulla scena e che si è inesorabilmente riempito di pioggia mentre la musica raccontava l’ansia e l’angoscia. «La cresse, mi te digo, la cresse» aveva profetizzato Fortunato, pescatore di Pellestrina. I murazzi hanno ceduto e l’aquagranda ha invaso Venezia. La memoria ha il suono sinistro della musica di Filippo Perocco e la forza delle immagini di Damiano Michieletto, corpi di uomini e donne, fradici d’acqua e avvolti in un abbagliante controluce. Venezia ricorda l’alluvione del 1966, stesso giorno, il 4 novembre, di quella che mise in ginocchio Firenze. Lo fa al Teatro La Fenice, con Aquagranda, opera contemporanea in prima assoluta che venerdì ha inaugurato la nuova stagione della fondazione lirica. Niente Mozart o Verdi rassicuranti, ma musica di oggi, commissionata appositamente. Con coraggio. Specie in tempi di crisi, come dicono i lavoratori del teatro che prima dell’opera salgono sul palco per un appello al governo per rimettere mano al decreto di riordino delle fondazioni che metterebbe a rischio la sopravvivenza del settore lirico-sinfonico.
Aquagranda, accolta da oltre dieci minuti di applausi, è una scommessa vinta. «Il progetto è nato due anni fa: Roberto Bianchin ha fatto diventare il suo reportage Il romanzo dell’alluvione un copione teatrale, Luigi Cerantola lo ha trasformato in libretto, Filippo Perocco ha scritto la musica» spiega Michieletto che ha tenuto le fila del lavoro, «pensato come ricordo dei tragici fatti del 1966, ma soprattutto come momento di riflessione artistica con musica, parole e immagini che si fondono in un’opera totale dove protagonista assoluta è l’acqua». E la vedi quando ancora le luci in sala non si sono spente: sta già riempiendo il muro di vetro che lo scenografo Paolo Fantin ha messo al centro del palco tutto nero. Il nero della memoria dal quale affiorano i ricordi, quelli in bianco e nero dei filmati d’epoca e quelli a colori delle scene di vita catturate da Michieletto come istantanee di una quotidianità nella quale irrompe un «oscuro mostro».
Perché la storia è raccontata con gli occhi di alcuni pescatori di Pellestrina (i sopravvissuti all’alluvione erano in platea alla prova generale), Nane, Fortunato e il figlio Ernesto, delle loro donne Lilli e Leda, ma anche del maresciallo dei carabinieri e del farmacista. Tutti realmente esistiti e in scena affidati alle voci di Andrea Mastroni, Mirko Guadagnini, Vincenzo Nizzardo, Giulia Bolcato, Silvia Regazzo, William Corrò e Marcello Nardis. Li vedi prima dietro il muro d’acqua, quasi figure indefinite immerse in un acquario, poi farsi carne viva e dar voce all’angoscia per la minaccia incombente. A Pellestrina si attende la grande onda. Si prega. «Dio delle notti limpide, del cielo e della terra, l’isola nostra salva e dona a noi la calma». Arriva il segnale: «Evacuazione!». Ma c’è chi resta perché non vuole lasciare l’isola. Nonostante l’acqua. Che all’inizio è vita perché è «sposa, amorosa e tosa» come la chiama il coro, messo su gradoni ai lati del palcoscenico, come in una tragedia greca. Ma poi, quando invade tutto, diventa «acqua sporca, porca e lurca, maledetta, rovinosa e atroce».
Venezia è inondata. In scena irrompe l’acqua. Bagna tutto e tutti. Devasta. Le parole non ci sono più, solo la musica, un lungo intermezzo che Michieletto riempie di poesia, teatro-danza (coreografie di Chiara Vecchi) che racconta i sentimenti. «Mi sono messo in ascolto della partitura e ho pensato a uno spettacolo visionario e non narrativo« rilette il regista che si è trovato tra le mani un libretto sì suggestivo e poetico anche grazie al dialetto veneziano, ma forse un po’ debole dal punto di vista drammaturgico: personaggi appena abbozzati, rapporti solo accennati. Unica azione quella dell’acqua che sale e poi si ritira quando, dopo che il coro ha evocato la «donna vestita di sole» dell’Apocalisse, «tutto è finito, mutato il vento e il cielo chiaro pulito».
Michieletto ha reso teatrale il libretto dando corpo con le sue immagini (le sedie che galleggiano, gli stivali pieni d’acqua, i fili rossi che richiamano l’importanza del fare memoria) alla musica di Perocco, fruibilissima e mai a cercare l’effetto (raccontando di vento e temporale sarebbe stato facile), che evoca piuttosto che descrivere, che scolpisce la parola e fa della voce uno strumento tra gli strumenti. Una partitura, diretta con passione da Marco Angius, dove nel rincorrersi di parole e note vedi (e senti) la marea che sale e poi ridiscende. Una musica che racconta un dramma. Che, sembra suggerire Michieletto sempre capace nei suoi spettacoli di parlare di noi con storie di ieri, potrebbe essere uno dei tanti drammi di oggi. Perché quel muro d’acqua è sì l’aquagrandache invase Venezia, ma potrebbe essere un’altra forza della natura, quella del terremoto (vedendo i pescatori che non vogliono lasciare Pellestrina non riesci a non pensare ai terremotati di oggi, che dormono in macchina per presidiare quello che resta delle loro case) o la minaccia, costruita dalla mano dell’uomo, del terrorismo. Dalla quale ci si salva, dicono il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro, e il patriarca, monsignor Francesco Moraglia, entrambi presenti in sala, «restando uniti e abbandonando ogni senso di superiorità degli uni rispetto agli altri».