Antoine Pecquer - Pasquale Juzzolino
Antoine Pecquer ne è persuaso: il soft power ha mai giocato così duro. A dispetto del nome, il “potere dolce” teorizzato negli anni Novanta da Joseph Nye è infatti un sistema estremamente articolato al suo interno e segnato da un’intima contraddizione. «In questa fase storica – spiega lo studioso e musicista francese – la cultura riveste un duplice significato geopolitico: può essere adoperata come cavallo di Troia per la penetrazione di uno Stato in determinati contesti, come avviene con la rete dell’Istituto Confucio promossa dalla Cina in Africa, ma può anche essere strumento di opposizione, come nel caso del cosiddetto “partito degli artisti” in Bielorussia». Gli esempi sono molto più numerosi e per accorgersene basta sfogliare l’informatissimo Atlante della cultura allestito dallo stesso Pecquer e tradotto da Raffaele Cardone per add (pagine 144, euro 22,00). Dopo la tappa al Salone del Libro di Torino, l’autore è ora atteso a Venezia, dove il 4 novembre sarà ospite del festival Incroci di civiltà.
Tra propaganda e ribellione la partita resta aperta?
«Direi di sì, anche se al momento i regimi autoritari sono quelli che meglio comprendono e sfruttano le risorse specifiche della dimensione culturale. I Paesi democratici sono meno inclini a investire nel settore e preferiscono delegare ai privati. Il che va benissimo finché si ragiona secondo i criteri della filantropia e magari anche dei vantaggi fiscali riconosciuti a quanti operano da mecenati. I guai iniziano quando si è costretti a constatare la mancanza di politiche culturali coerenti da parte degli Stati e più ancora di organismi sovranazionali quali l’Unione Europea».
Per evitare sospetti di dirigismo?
«Forse, ma in questo modo si finisce per relegare la cultura a un ruolo secondario, poco più che ornamentale e, alla lunga, irrilevante. Solo dagli anni Novanta, con i Trattati di Maastricht, la Ue ha rivendicato a sé la competenza in questo ambito, ma finora non è stato sviluppato alcun progetto organico, in grado di dare concretezza alle dichiarazioni di principio».
Perché si dovrebbe fare adesso?
«Perché ci troviamo in una situazione irripetibile. Dopo essere uscita dall’Unione, la Gran Bretagna si sta ulteriormente adeguando ai modelli dell’industria culturale statunitense, la cui posizione dominante è però messa in discussione dall’emergere delle nuove potenze dell’intrattenimento, prime fra tutte la Corea del Sud. Per la Ue si profila l’opportunità di dare una forma originale e competitiva alla propria politica culturale. Tra l’altro, sarebbe un modo per superare il pregiudizio economico che da troppo tempo pesa sull’Unione».
L’identità europea resta però una questione irrisolta.
«Che l’Europa abbia una sua identità, ancora più marcata delle singole identità nazionali, è un dato indiscutibile, da rivalutare anche in sede politica per evitare contrapposizioni sterili e chiusure altrettanto assurde. Ma identità non significa uniformità. L’Europa si regge su una serie di stratificazioni più che millenarie, nelle quali il contributo del cristianesimo si fonde con l’eredità greco-romana e con quella di popolazioni ancora più antiche. Se questo è il nostro passato, il nostro futuro non può essere meno dinamico, né meno accogliente. L’identità europea di domani non può fare a meno dell’apporto dei migranti che alcuni Paesi vorrebbero respingere proprio in nome di una presunta identità immutabile del continente. Uno degli effetti positivi di una politica europea comune consisterebbe nell’impedire queste derive ideologiche».
La Ue dovrebbe imitare la Francia?
«Il mio Paese ha una tradizione di politica culturale che risale a Luigi XIV, d’accordo, ma guardi che anche l’Italia avrebbe molto da insegnare. La cultura è stato il fattore determinante per la vostra unità nazionale e ancora oggi, al di là delle apparenze, restano analogie tra Parigi e Roma».
In che senso?
«Il “bonus cultura” è disponibile sia in Francia sia in Italia, dove però sta funzionando molto meglio. Per un semplice motivo, secondo me: la famosa democratizzazione della cultura promossa negli anni Ottanta in Francia dal ministro Jack Lang si basa su un visione paternalistica, che assegna alle élite il compito di dispensare alle masse quello di cui si presuppone le masse abbiano bisogno. Uno schema che i giovani di oggi istintivamente respingono, perché li fa sentire poco ascoltati. In definitiva, la cultura è proprio questo: ascolto. Altrimenti rimane propaganda».