venerdì 10 febbraio 2017
Una mostra dedicata all’ultima opera del grande storico, a tre secoli dalla nascita
«Ritratto di J.J. Winckelmann» (1764), incisione tratta dal dipinto di Angelica Kaufmann

«Ritratto di J.J. Winckelmann» (1764), incisione tratta dal dipinto di Angelica Kaufmann

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Quando morì a Trieste, assassinato l’8 giugno 1768 da Francesco Arcangeli, era di ritorno da Vienna dove era stato ricevuto dall’imperatrice Maria Teresa che lo aveva coperto di doni, in particolare medaglie d’oro e d’argento. Da Trieste avrebbe dovuto prendere la nave fino ad Ancona e da lì ripartire per Roma, dove ricopriva l’incarico di Soprintendente alle antichità dell’Urbe. Nell’attesa prese alloggio alla Locanda Grande. L’Arcangeli (che nome!) era un cameriere o cuoco di origini pistoiesi, in realtà un furfante, già frequentatore di galere, e pensò bene di usare il coltello, non per disossare qualche animale da cucina, ma per aggredire Johann Joachim Winckelmann e derubarlo delle medaglie che aveva con sé. Era ancora giovane, Winckelmann, appena cinquant’anni. E soprattutto aveva un progetto ambizioso da portare a termine: i Monumenti antichi inediti, di cui erano usciti a sue spese i primi due volumoni in folio. Lavorava al terzo, e aveva già riunito altre decine di opere inedite che avrebbero completato un lavoro in realtà interminabile che, visto oggi, non risalta per la sua qualità artistica (per lo più illustrativa), e nemmeno per la sua realtà antiquaria, ma proprio per quel che suggerisce di un’epoca di cui sappiamo, tutto sommato, sempre troppo poco. Il Settecento è un secolo studiato più per le correnti di pensiero e per gli sviluppi tecnici, che per il panorama artistico, che sembra star lì, sospeso fra i conati del barocco e un tempo dove la novità è sempre sul punto di essere partorita, e ha come ostetrico il passato.

La dialettica, se così si può dire, sarà poi quella fra neoclassici e romantici. Winckelmann è, di questo tempo, il profeta, e poi, a suo modo, anche l’affossatore, e in virtù della sua ultima, impegnativa opera. Se con la prima opera, i Pensieri sull’imitazione delle opere greche in pittura e scultura, edita a 38 anni, aveva posto le basi teoriche per lo sviluppo del gusto neoclassico – ecco il celebre pensiero che ha dominato la storia dell’arte: «La generale e principale caratteristica dei capolavori greci è una nobile semplicità e una quieta grandezza, sia nella posizione che nell’espressione» –, dodici anni dopo, quando pubblica i Monumenti antichi inediti, il suo pensiero sembra orientarsi su questioni di filologia e di erudizione, vizi che gli vennero imputati come soggezione al gusto degli antiquari italiani, in virtù anche dell’amicizia e del sostegno del cardinale Alessandro Albani, grande collezionista, uomo eruditissimo e affabulatore.

Archeologia e filologia avevano calamitato la sua mente al punto che in quest’ultima opera sembra quasi dimenticarsi del suo grande tema: l’imitazione. A trecento anni dalla nascita di Winckelmann il Max di Chiasso ha deciso di comporre – sotto la cura di Stefano Ferrari e Nicoletta Ossanna Cavadini – una mostra sull’ultima, incompiuta opera del grande storico ed erudito prussiano. E si tratta, nonostante il materiale e il tema, di una mostra non solo demandata a chiarire questioni di filologia, poiché il suo merito maggiore è di suggerire pensieri di cui forse non siamo ancora abbastanza coscienti. Intanto, e lo metto quasi come nota a margine, Winckelmann avrebbe voluto farsi italiano. In certo modo, lo dimostrano anche i Monumenti, l’unica opera che scrisse direttamente in i- taliano (avvalendosi di consulenti che gli verificavano la lingua: dovette ristampare i primi dieci fogli perché erano rimasti alcuni errori). Era di umili origini, Winckelmann, ma la sua forza di carattere lo sostenne contro tutto ciò che poteva fare ostacolo al suo progetto di vita: studiare, conoscere il pensiero e le testimonianze della cultura, a cominciare da quella classica. E come primo impiego, all’età non giovanissima di trentuno anni, ebbe un posto di bibliotecario vicino a Dresda. Il suo desiderio, però, era di recarsi a Roma. Grazie alla mediazione di un prelato milanese, Alberico Archinto, nunzio di Polonia, ci riuscì; e il monsignore lo portò anche alla fede cattolica.

Anche per questo, credo, che la sua fama in Germania e nei Paesi anglosassoni ha avuto alti e bassi. Uomo di idee ferme e chiare, Winckelmann guardava ad Atene come patria della libertà e baluardo contro la tirannia (e traduceva così la sua contrarietà al potere monarchico). È su questa base “illuministica” che l’arte greca ai suoi occhi rappresenta il vertice di armonia e bellezza da imitare. La “nobile semplicità e quieta grandezza”, però, è soprattutto un idea- le etico e politico, di cui l’estetica diventa la rappresentazione visiva. Come cattolico, doveva conciliare in sé il fatto di vivere in una città su cui regnava una monarchia, quella papale, che aveva segnato nel bene e nel male le sorti politiche dell’Europa. Ma decidendo di realizzare i due volumi sul Monumenti antichi inediti, doveva ormai aver metabolizzato questo contrasto e l’amicizia di Albani aveva certamente pesato. Il gusto archeologico aveva cambiato molto la prospettiva cheWinckelmann delineò nella sua prima opera, la quale vide la luce – è bene ricordarlo – un decennio dopo le scoperte fatte negli scavi a Ercolano e Pompei, vero terreno di coltura della rinascita in Europa del gusto per l’antico.

Winckelmann, dunque, colse un movimento in fieri. E con l’impeto di un giovane studioso lasciò briglia sciolta alla sua indole di filosofo e teorico, come se quei ritrovamenti avessero prodotto una rivelazione inattesa, riscoprendo una verità perduta, eclissata, che avrebbe potuto rimettere in carreggiata l’arte ormai invischiata nelle paludi barocche. Quando si accinge a comporre i Monumenti antichi inediti, Winckelmann sembra invece aver spostato il fuoco della prospettiva. Pare più interessato al metodo scientifico all’origine delle catalogazioni dei materiali di scavo che fiorivano in quegli anni grazie ai cospicui ritrovamenti e alla filologia che consentiva di svelare gli enigmi iconografici che avvolgevano quelle opere classiche di cui spesso non era evidente il tema. Qualche anno prima, come scrive in alcune lettere, la sua idea era di produrre una “Illustrazione di alcuni punti difficili in fatto di Mitologia e Antiquaria”. Ma siamo ancora nel 1762. Dal 1758 al 1767, Winckelmann fece alcuni viaggi nelle zone di scavo partenopee (anche nel 1764, quando imperversa la peste che uccideva centinaia di persone ogni giorno), ed è lecito supporre che anche i suoi propositi mutassero di volta in volta fino a precisarsi nell’idea finale dell’opera, il cui scopo, infatti, era anzitutto quello di chiarire miti, figure, narrazioni ancora nebulose. Oggi, informati di tutto come siamo, può sorprendere che Winckelmann definisca “inedite” opere antiche che erano conservate nelle maggiori residenze pontificie del suo tempo, ma questo ci fa capire di converso il fermento attorno agli scavi archeologici e ai ritrovamenti che avvenivano si può dire quotidianamente. Winckelmann fece anche un calcolo economico (dato che aveva deciso, alla fine, di essere non soltanto l’autore, ma anche l’editore e il venditore dell’opera): realizzando i Monumenti in lingua italiana confessò anche di aver «dovuto pensare più alla borsa degli amatori che degli eruditi e la lingua italiana è conosciuta in special modo in Inghilterra».

Tutti i conti si rivelano sbagliati, e l’impresa risultò quasi fallimentare tanto che Winckelmann si era rassegnato all’idea che avrebbe impiegato anni per vedere le copie stampate (basti dire che l’Albani – che era proprietario di 106 delle antichità presenti nell’opera – rilevò l’intera giacenza lasciata dall’autore dopo la morte prematura, ovvero 420 delle 630 copie stampate). Mengs, Canova, David: basterebbero questi tre nomi, a mostrare quale peso possa aver avuto quest’opera sulla storia dell’arte successiva (Lorenzo Lattanzi nel suo saggio nel catalogo Skira ne segue passo passo i rapporti più o meno espliciti). Eppure, a me pare che la mentalità con cui Winckelmann lavora alla sua opera abbia impressionato maggiormente le menti della storiografia dell’arte, anche ottocentesca, fino a Warburg che dal disvelamento dell’iconografia parte per fondare un altro metodo di studio – facendosi seguace dell’ansia di smascheramento di Nietzsche – dove l’etico e il politico contano almeno tanto quanto il sogno della Grecia nell’estetica di Winckelmann.

Chiasso
Museo Max
J.J. WINCKELMANN (1717-1768)
I “Monumenti antichi inediti”
Fino al 7 maggio

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