Andrea Cinciarini, 32 anni, capitano dell’Olimpia Milano (MarcoBrondi/Ciamillo-Castoria)
Il talento non basta. Per farlo fruttare servono passione e forza di volontà. È il credo che Andrea Cinciarini ha immortalato anche in un tatuaggio. Del resto, che il capitano dei campioni d’Italia dell’Olimpia Milano faccia della costanza e della carica agonistica le sue armi migliori lo si può toccare con mano vedendo un suo allenamento: ha la stessa intensità di una partita vera.
La voglia di vincere del playmaker 32enne di oggi è rimasta la stessa del bambino di ieri che andava per le prime volte a canestro nel campetto dietro la parrocchia di Cristo Risorto a Pesaro. Lì, sotto gli occhi di papà Franco cestista a ottimi livelli, sfidava suo fratello maggiore, Daniele, in partite memorabili in cui nessuno dei due voleva perdere
Con la maglia della Victoria Libertas Pesaro, il “Cincia” (nato a Cattolica) ha esordito in Serie A a 17 anni, ironia della sorte proprio contro Milano. Ha fatto gavetta anche nelle serie minori prima di consacrarsi vestendo tra le altre, le maglie di Montegranaro, Cantù, Reggio Emilia (con cui ha vinto l’EuroChallenge) e infine Milano.
Con l’Olimpia targata Armani ha messo in bacheca due scudetti, due Coppe Italia, tre Supercoppe italiane. Nel giro della Nazionale maggiore dal 2009, è stato chiamato dal ct Sacchetti anche nei recenti impegni delle qualificazioni mondiali. Ma incombe il campionato e con la Supercoppa appena conquistata Cinciarini si appresta a vivere un’altra stagione da protagonista, lui che può contare ormai anche su un tifoso speciale: «Mio figlio Alessandro, ha tre anni e comincia a capire tutto del basket. Vuole seguirmi ovunque, anche in trasferta », dice raggiante.
La sensazione è che per Milano la Supercoppa sia solo l’antipasto di una grande annata.
«Abbiamo iniziato bene, ma dobbiamo ancora lavorare. Puntiamo al triplete italiano: oltre alla Supercoppa, lo scudetto per il secondo anno di fila che l’Olimpia non centra da tanti anni e la Coppa Italia. E poi in Eurolega vogliamo affermarci tra le prime otto: l’anno scorso abbiamo perso troppe partite in casa e anche per pochi punti. Quest’anno contiamo ancora di più sull’appoggio del Forum per invertire la rotta e andare a vincere anche fuori».
Dopo l’ultimo mercato sembra l’Olimpia più forte in cui lei abbia giocato.
«Abbiamo preso due grandi giocatori come James e Nedovic e italiani importanti come Della Valle, Brooks, Burns… Poi è rimasto il gruppo dello scudetto che era già di qualità. Sicuramente è l’Olimpia col maggior talento ma saranno i risultati a dire se è anche la più forte».
Sulla carta il campionato italiano sembra già scritto.
«Ma la Serie A è sempre molto tosta. Le altre squadre si sono rinforzate. È vero che in Supercoppa abbiamo controllato le partite per larghi tratti, ma Trento era incompleta, Brescia ha cambiato tanto e deve assestarsi, Torino ha tanti americani e un coach come Larry Brown… Poi vedo bene Venezia, Avellino, Bologna, Sassari… Debuttiamo contro Brindisi che ha fatto un precampionato da imbattuta... Non dimentichiamo che l’anno scorso siamo arrivati secondi in regular season. Certo siamo campioni d’Italia e partiamo favoriti ma mai dare nulla per scontato. Non faremo l’errore di sottovalutare gli avversari perché il nostro coach Pianigiani, che conosco bene per averlo avuto anche in Nazionale, cura tutto nei minimi dettagli. Sappiamo che contro di noi ogni squadra darà il cento per cento».
Il basket per lei è una questione di famiglia…
«Sì, sia mio padre che mia madre sono stati professionisti. Con mio fratello (oggi alla Fortitudo in A2, ndr) siamo stati tante volte avversari in Serie A ma anche compagni in Nazionale ai Giochi del Mediterraneo nel 2009. E quante volte in questi anni ci siamo sfidati in estate “uno contro uno”. Proprio come facevamo da bambini con papà arbitro… Quelle partite hanno forgiato il nostro carattere. Siamo cresciuti grazie a due grandi educatori come i nostri genitori che ci hanno insegnato il valore del sacrificio e la forza per non mollare mai».
Un campione come Rimantas Kaukenas che si è ritirato il mese scorso a 41 anni la definisce un professionista esemplare per i giovani.
«Per me è un grande onore perché lui per me è il modello di giocatore soprattutto in là con gli anni. Ho avuto la fortuna di giocare con lui quando aveva 39 anni ed era il primo ad arrivare in palestra l’ultimo ad andare via. Lo stesso voglio fare io da capitano: vita da atleta, recupero, cura dell’alimentazione, tanto lavoro e basta discoteche. Voglio chiudere la carriera a 40 anni, sarebbe un sogno farlo qui a Milano o a Pesaro col mio amico Hackett».
La stessa serietà che pretende il ct dell’Italia Meo Sacchetti.
«Lui è una grande persona, un super allenatore, diverso dagli altri, ti dà grande fiducia. Si è parlato troppo degli assenti in Nazionale, focalizziamoci su chi c’è: vestire la maglia azzurra è un orgoglio per chiunque. E poi manca davvero poco per qualificarci al Mondiale: per la nostra generazione che non li ha mai fatti sarebbe fantastico».
Qual è stato finora il momento più bello della sua carriera?
«Ce ne sono stati almeno tre: la vittoria dell’EuroChallenge con Reggio Emilia, il mio primo trofeo; la prima Coppa Italia vinta con Milano, che mancava da vent’anni e l’ultimo scudetto. Ma ho passato anche tanti momenti difficili: il primo anno a Cantù o i primi tempi a Milano, e poi certo lo scudetto sfuggito per un soffio a Reggio Emilia... Ma non ho rimpianti, non credo debbano esserci mai, c’è solo rammarico. Però ho imparato che ogni sconfitta ti insegna sempre qualcosa: chi fa sport lo sa, ma è così anche nella vita di ogni persona».
Chi le è stato più vicino nelle difficoltà?
«Sicuramente mia moglie, Alessia. Nei momenti belli o brutti lei c’è sempre stata. Ho incontrato la persona che sognavo e il matrimonio è stato il giorno più importante della mia vita insieme alla nascita di mio figlio. Con Alessia condividiamo il valore della famiglia che viene prima di tutto. Sono spesso fuori tra trasferte e Nazionale, ma cerco sempre di dare una mano a casa: mi piace andare a fare la spesa tutti e tre insieme, portare al parco il piccolo, giocare con lui…».
Prima che un giocatore lei è un papà felice…
«Senza dubbio. Poi il mio bimbo ormai mi segue ovunque anche in trasferta: non vuole perdersi nemmeno una partita. E quando gli diciamo “papà gioca domenica”, lui ogni giorno comincia: “È oggi domenica?”. In Supercoppa ha avuto il piacere di festeggiare col papà e di essere bagnato anche dallo spumante. Ha conosciuto tutti i miei compagni, anche in Nazionale che ha imparato a distinguere come “la squadra blu”. Gli ho proposto oltre al canestro anche la porta di calcio, ma lui per ora ha scelto: ha fatto già il primo allenamento di mini-basket!».
Che cosa vorrebbe trasmettergli?
«Con mia moglie lo lasceremo libero di fare le sue scelte e i suoi errori, ma gli indicheremo la strada. Vorrei che crescesse con princìpi giusti. Per me anche la fede è un valore importante: prego spesso e porto volentieri Ale in chiesa per una preghiera. Mi piacerebbe poi fargli capire che il basket come qualsiasi sport deve essere innanzitutto passione, divertimento, amore. Per ora mi basta vederlo felice esclamare: “Papà ha vinto, papà alza la coppa”».