La prima della Scala vissuta in Casa Verdi ha tutte le atmosfere del loggione, con in più le emozioni e la competenza di chi quelle parti le ha cantate più volte nella vita, sui palcoscenici del mondo. C’è attesa particolare per un’opera, l’Andrea Chénier di Umberto Giordano, che alla Scala non andava in scena da 32 anni e che anche allora vedeva sul podio Riccardo Chailly. «E’ mio nipote, il figlio di mio fratello», sorride la signora Silvana, sorella del compositore Luciano Chailly, seduta nella speciale platea di artisti in pensione (ma va mai in pensione davvero, un artista?), tutti eleganti come fossimo a teatro.
Alle 18, puntualissimo come da tradizione, si aprirà il sipario del palcoscenico più famoso al mondo, e qui in sala Toscanini il maxischermo in diretta televisiva darà l’illusione di essere seduti in prima fila, spettatori privilegiati. Ma nell’attesa si parla di un passato lontano e un po’ struggente… «Sono stato Andrea Chénier tante volte, era tra le opere preferite del mio repertorio e l’ho cantato con la Tebaldi negli anni ’60 o ‘70 – racconta Angelo Lo Forese, classe 1920, tenore di fama che calcò le scene con 75 opere alternandosi a nomi come Mario Del Monaco, Giuseppe Di Stefano, Franco Corelli o Carlo Bergonzi –. La parte del tenore in Chénier è molto difficile, sia come personaggio in sé, sia dal punto di vista vocale. Giustamente Chailly ha detto che per tanti anni quest’opera è sparita dalla Scala perché non c’erano voci abbastanza potenti, per il tenore particolarmente». Nato baritono, nel 1952 si è scoperto tenore, «ho fatto l’inverso di ciò che accade di solito», sorride, «Domingo era tenore e oggi canta da baritono… Le dirò solo alla fine se abbiamo trovato un grande tenore».
Da pochi mesi, poi, c’è un ospite nuovo a Casa Verdi, un ospite di riguardo. «Ho al mio attivo 120 recite solo alla Scala e per 45 anni ho cantato in tutto il mondo eccetto Cina e Australia», si presenta il baritono Lorenzo Saccomani, 79 anni, approdato da sei mesi nella “Casa di Riposo per musicisti” voluta da Giuseppe Verdi nel cuore di Milano (lui stesso la definiva «la mia opera più bella»). Anche Saccomani ha cantato più volte l’Andrea Chénier, nel ruolo di Carlo Gérard, in Italia come a Bonn e a Santiago del Cile. «Ci vuole una raffinatezza particolare perché Gérard è personaggio complesso, ama Maddalena, che però ama il poeta Chénier… In genere il baritono è vendicativo, per raggiungere i suoi obiettivi sacrifica chiunque altro, ma Gérard cerca più volte di salvare il suo antagonista. Quando alla fine Maddalena prenderà il posto di un’altra donna condannata alla ghigliottina, pur di morire assieme al suo amato, Gérard ricorrerà persino a Robespierre, nella speranza di salvare i due, ma la morte avrà la meglio… Ha avuto coraggio Chailly ad aprire la stagione scaligera con un’opera verista, è un’ottima scelta». Irremovibile e signorile, il maestro d’orchestra Armando Gatto 89 anni, vive il prespettacolo con la concentrazione di quando sul podio c’era lui (diresse Andrea Chénier a Catania nei primi anni ‘80) e preferisce tacere. Parlerà solo all’intervallo: «Spettacolo di primissimo ordine. Bravi i cantanti, pregevole la regia, belle le scene, eccellente Chailly. Abbiamo finalmente trovato un ottimo tenore… Non trovo davvero niente da dire, tutto positivo». Al suo fianco, altrettanto appassionata, la moglie greca Irini Gari Falaki, soprano. «Molta, troppa gente, è contenta quando le cose vanno male, e questo è triste. Io invece sono di quelle persone che quando una cosa è bella si entusiasmano e ne gioiscono. Questa sera c’è solo da gioire».
Entusiasta del tenore Yusif Eyvazov è il baritono Claudio Giombi, con accanto la moglie Katherine Feller, attrice inglese: «Chi era stato alle prove generali alla Scala mi aveva detto che non era perfetto, invece trovo che abbia una voce meravigliosa. Mi ricorda il timbro di Aureliano Pertile, senz’altro il miglior Andrea Chénier». Non così però il baritono Luca Salsi nel ruolo di Gérard, «è sempre troppo arrabbiato, manca di leggerezza, qui siamo nel verismo e mi pare che Salsi se ne dimentichi: ci sono parti praticamente parlate, invece lui di ogni frase fa una romanza, manca la tecnica della declamazione». Soprattutto apprezza le scene e «l’idea geniale di far fluire i vari quadri senza interruzione, con il grande effetto del passaggio improvviso dal rococò iniziale dell’aristocrazia, al Terrore della Rivoluzione francese». La regia di Mario Martone e le scene di Margherita Palli promosse a pieni voti, dunque.
Solo alla fine anche Lo Forese si sbilancia sul tenore e scioglie ogni riserva: «Ottima voce, splendida interpretazione. Da una prima della Scala semmai mi aspetterei di più da tutti gli artisti come movimenti sulla scena, decisamente troppo statici, ma per il resto direi una grande rappresentazione mondiale».
Massimo dei voti anche da Stefania Sina, 89 anni, mezzosoprano, anche se «a voler essere pignola, ma proprio tanto pignola» rileva tutt’al più un timbro troppo tagliente nella voce del tenore, che preferirebbe «più italiana, più adatta al nostro melodramma»… E’ felice e triste insieme «perché penso che esattamente 60 anni fa ero io sulle scene, nella parte della contessa di Coigny, la madre della protagonista, qui una brava Mariana Pentcheva…»
Anna Netrebko, l’amata dal tenore sulla scena e nella vita reale, è appena salita sulla ghigliottina insieme a lui e molti occhi sono lucidi, forse più per i ricordi personali che per il melodramma. Alla Scala si chiude il sipario e si chiude anche qui in Casa Verdi, con le due sale che si fondono in un unico applauso. Gli ospiti di Verdi sfilano sotto il suo busto e raggiungono le loro camere. «Mi torni a trovare, le racconto di quando facevo il Rigoletto…». «Lo sa che canto ancora? Ho tenuto da poco un concerto, se viene ne parliamo…». «Ricordo con affetto Magda Olivero, Clara Petrella…». Echi, voci, volti. E sopra a tutti il profilo paterno di Giuseppe Verdi, che riposa qui accanto ai suoi ospiti nella cripta, con la moglie Giuseppina Strepponi. «Quanta gratitudine gli dobbiamo, è il nostro grande benefattore, unico al mondo, siamo tutti qui grazie a lui». A loro, «i cari compagni della mia vita», Verdi volle che fossero destinati i proventi derivanti dai diritti d’autore di tutto il suo repertorio.