martedì 14 agosto 2012
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Sono genitori giovanissimi (16 anni lui, 15 lei) e aspettano, appena un po’ in ansia, il risultato dell’ecografia. Ma all’improvviso le immagini  gelano i medici: la mamma porta in grembo due sorelline siamesi non separabili, condannate a morte sicura. Tutti allora consigliano l’aborto, però le pressioni cadono di fronte a un inflessibile «no» dei  due ragazzi. «Pienamente consapevoli, volevano ad ogni costo che la gravidanza continuasse: quelle erano le "loro" bambine. Quando le bimbe nacquero, subito i genitori le presero in braccio e se le tennero così, con infinita tenerezza. Nel loro breve spazio di vita, le gemelline ebbero tutto l’amore di cui una madre e un padre possono essere capaci. In sala parto avevano le lacrime agli occhi anche i medici e gli infermieri che avevano raccomandato l’aborto» racconta la professoressa Elvira Parravicini, dal 1998 al Medical Center della Columbia University di New York, che – era luglio dell’anno scorso – applicò anche alle bimbe gemelle il suo programma Comfort care. Lo illustrerà al Meeting di Rimini venerdì 24 agosto e può riassumersi così: prendersi cura – dal punto di vista medico e infermieristico – anche dei neonati che non hanno possibilità di sopravvivere e anzi in molti casi avranno una vita fugace come un soffio.Professoressa, nel caso delle gemelline come fu valutata la sua scelta controcorrente?«Di fronte a quelle bimbe appena nate, che respiravano a fatica, ma accolte totalmente nell’abbraccio dei genitori, la commozione dei medici e degli infermieri testimonia che era stata una scelta giusta non ricorrere all’aborto. Come vuoi  comportarti di fronte a una mamma e a un papà che accettano e abbracciano le loro figlie così come sono (anche con malformazioni e anomalie incompatibili con la vita)? Più che una questione ideologica o religiosa, concludere che l’aborto è sbagliato è una questione di cuore. E abbiamo tutti lo stesso cuore».Nel 1994, al momento di varcare l’Oceano, lei si distingue esprimendo profonda gratitudine per quanto aveva imparato in Italia: la scienza medica in un grande ospedale e l’assoluta, cristiana dedizione al prossimo, appresa a contatto con don Luigi Giussani. Si sentiva già realizzata in Italia?«Avevo  lavorato otto anni all’Ospedale di Monza  nell’unità di Patologia neonatale. Mi sentivo portata per la diagnosi prenatale, per poter fornire alle famiglie un piano d’azione e prendermi cura dei bambini una volta nati».Che è poi quanto lei fa negli Usa...«Come neonatologa, mi sono messa subito a lavorare in collaborazione con i colleghi ostetrici che si occupavano delle gravidanze ad alto rischio. All’inizio fu un’esperienza shock: la cura della gravidanza e, in particolare, la diagnosi prenatale era tutta centrata sull’identificazione di difetti fetali. Quando a questi bambini venivano diagnosticate patologie gravi, la sola cura offerta era l’aborto».Come ha reagito?«Era una grande menzogna, mi sentivo impotente. Per tre anni, pur lavorando nello stesso ospedale, non sono più andata a queste riunioni. Un giorno, una collega di Ostetricia mi ferma nel corridoio e mi fa: "Perché non partecipi più alle nostre discussioni?". Ho pensato subito che, se Dio ci parla attraverso la realtà, quella era una chiamata. Mi sono detta: non so cosa potrà accadere, ma io ci torno. Se questi bambini soffrono, soffrirò anch’io con loro».E ha varato la sua formula, sensibile e moderna«Anche allora è stata la realtà a suggerirmi la via da prendere. Ho incontrato mamme che non hanno voluto abortire, hanno portato a termine la gravidanza, anche sapendo che i loro bambini sarebbero morti poco dopo la nascita. E ho offerto il mio impegno a prendermi cura dei loro bimbi, appunto con questa terapia medica particolare che si chiama Comfort care. Ma attenzione: tante volte Comfort care vuol dire non fare nulla per il bambino, semplicemente lasciarlo morire. Per noi invece è vero conforto».Più in dettaglio, in che cosa consiste il «Comfort care»?«Il benessere per un neonato  consiste nell’essere accolto, tenuto in braccio, lavato  e pulito. Nel non soffrire per fame, sete o dolore. Controlliamo che mantenga la temperatura corporea e non abbia freddo, che l’idratazione sia sufficiente; inoltre si possono somministrare farmaci e, se necessario, si ricorre alla chirurgia. Ma ogni cura deve mirare al benessere del paziente per la durata della sua vita, per settimane o pochi minuti. Ci sono stati anche casi eccezionali di bambini sopravvissuti per anni. La Confort care è di fatto una terapia medica e una cura infermieristica, guidate da un piano di valutazione. Nel nostro programma cerchiamo di tener conto di tutti i fattori. Per esempio, apriamo il reparto ai genitori perché stiano tutto il tempo possibile col loro bambino, la cui vita è spesso molto breve».Accanimento terapeutico, obietterà qualcuno che non ha capito il contenuto umanitario.Che cosa rispondete?«L’accanimento terapeutico è un’altra cosa e consiste nel tenere in vita a tutti i costi un malato che sta per morire e non ha possibilità di guarigione. Il programma Comfort care non è il Life support, la ventilazione meccanica. Noi non costringiamo i nostri pazienti a rimanere in vita; garantiamo uno stato di benessere per la durata della loro esistenza».

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