L'interno della Westerkerk ad Amsterdam (Creative Commons)
Giorni di Amsterdam. Qui il conflitto sembra non trovare spazio. Contraddizioni stridenti che vivono una accanto all’altra, trasgressioni regolamentate come un impiego statale, una organizzazione ecofriendly che fa apparire le nostre piste ciclabili pura preistoria. Tutto senza dramma. Almeno in apparenza.
In questa atmosfera ho visitato la Westerkerk, dove da qualche parte è sepolto il grande Rembrandt. Questa chiesa protestante, mentori un senzatetto rasta degno di Hackney e una rivendita di formaggi olandesi che fa parte dell’edificio, ha rimesso in discussione alcune mie percezioni. Entrando, trasmette la sensazione di un municipio in cui si tengono i consigli per le revisioni di bilancio o l’urbanistica dei parcheggi. Le sedie, confortevoli e prive di una forma che le riscatti dall’anonimato, sono disposte in maniera assembleare. La luce è distribuita con discreta indifferenza al mistero. Sopra la porta d’ingresso incombe un grande organo a parete, barocco e svettante, sicuramente impressivo, realizzato nella seconda metà del XVII secolo da tale Roelof Barentszn Duyschot.
Poi arriva il fulcro della chiesa. Ecco che appare un singolare “bema” in legno con altare, ambone e sede che sembrano la traslazione del modellino di un salotto da commerciante olandese riportato al centro della chiesa, di età indefinibile quanto inincidente. La mia prima impressione è quella di un luogo dove il simbolo è privato di ogni tensione, di ogni capacità di ispirare, di ogni suggestione alla meditazione, proprio come la contiguità indifferente del quartiere a luci rosse e dei coffee shop con le chiese intorno a piazza Dam.
Lo smarrimento è forte e provoca un pensiero ulteriore. Questo è il sacro? Il sacro deve per forza essere sacro? È proprio necessario vestirlo di una forma specifica, o invece il sacro ha la proprietà di manifestarsi senza uno schema preciso? Quel “presbiterio” sembra l’angolo di una casa dalla sobrietà sconcertante e anonima. Ma il fatto di “elevarlo” ribalta la questione.
Io personalmente amo il grande gotico, la immersione nella suggestione di forme ispiranti e apocalittiche... ma questo appartiene al mio codice, da non confondere con il sacro. Che evidentemente non s’identifica totalmente in alcuna categoria, ma le genera e comprende tutte. Veicolare i simboli fondamentali di una visione escatologica attraverso la normalità comune dell’esistenza è una forma di ribellione senza sfarzo. Non la definirei essenzialità. La definirei quotidianità.
L’essenzialità è una strada scivolosa. Si può facilmente barattare con una visione concettuale incorporea, che parla di distanza, di assenza. Come avviene in molte chiese contemporanee che rischiano l’impressivo esercizio di stile, anche imponente, esaltazione di uno spazio il cui vuoto risuona fino al punto di annullare ogni altra dimensione. La quotidianità invece è sempre ricca, meravigliosamente ricca. Non ha l’austerità di un digiuno forzato e severo. È feconda e multiforme, prolifica e vivace. È un costante rimando di presenza e un invito all’incontro. È dinamica e viva. A patto di avere gli occhi per leggerla.
Nel tavolino, nella sedia, nel leggio di legno della Westerkerk devo ammettere che la quotidianità diviene gloriosa. Rivendicazione di una verità ubiquitaria che non richiede necessariamente sfarzo, ricercatezza e forse neanche individualità. Dopo un tempo di decantazione quei semplici mobili diventano il luogo della gloria di ogni giorno, della provvidenziale impossibilità dello spreco. Al principio appaiono come un pacifico assemblaggio di elementi che non turbano, poi si rivelano come la affermazione decisa di una ricollocazione della sacralità. Continuo ad amare le forme potenti e grandiose ma improvvisamente ho realizzato che la potenza, la meraviglia, riescono sempre a sorprendere, se sei aperto all’incontro.
In quel tavolino olandese si può cogliere in maniera diretta e forse anche dura il significato più profondo della intenzione di Lutero, che poi ha dato adito ad enormi fraintendimenti e grandi errori, ma che all’origine era estremamente interessata all’uomo e alla sua contiguità ineludibile col mistero. Fosse anche attraverso un insignificante mobiletto di quarta categoria.
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