August Malmström, “Le fate danzanti”, 1866 - archivio
Tutti noi, da bambini, abbiamo incontrato le fate. Uscendo dalle pagine di Perrault, dei fratelli Grimm e di Collodi, o dalle animazioni di Disney, le fate ci hanno raggiunto o almeno sfiorato, ci hanno guardato, hanno danzato per noi o ci hanno offerto incantesimi impareggiabili negli anni più ricchi di sogni. Di loro, però, non abbiamo mai saputo molto. Chi erano, chi sono davvero – ammesso che da qualche parte esistano ancora – queste creature amiche dell’aria e dell’acqua, esperte nelle arti del volo e del sortilegio, sempre in bilico fra il visibile e l’invisibile, la luce e le ombre, la dolcezza, il capriccio e il mistero? Un ricco, vibrante e documentatissimo studio di Carla Lomi, Le fate tra illusioni e disincanto (Moretti & Vitali, pagine 304, euro 24,00),cerca di guidarci tra le foreste, i castelli, le radure, i luoghi segreti e ipnotici – fuor di metafora: nel grande labirinto di miti, leggende e fiabe orali e scritte – in cui le fate hanno dimorato fin dai tempi più remoti. Prossime alle ninfe greche e latine, e dunque legate allo spirito erratico, metamorfico delle fonti o dei torrenti, ma intrise anche di vibrazioni, bagliori, riverberi lunari come la dea Iside (grande archetipo femminile della Natura), per certi versi affini alle Peri della mitologia persiana, alle Apsaras della cultura vedica e alle “fanciulle-cigno” aleggianti un po’ ovunque, le fate hanno acquistato le loro forme delicate e sinuose, i loro volti dolci e sfuggenti, le loro figure scintillanti e leggerissime, le loro seduzioni e i loro poteri benefici nel corso del Medioevo europeo.
Due sono i prototipi della fata immaginati nei lais, nei romanzi bretoni e nelle leggende medievali d’origine celtica: Morgana e Melusina. Entrambe s’innamorano di un uomo: la prima lo porta nel proprio mondo (l’Isola dei Pomi, talvolta detta Isola Fortunata o Avalon) e vuole trattenerlo qui per sempre, imprigionandolo in una specie di sogno dorato; la seconda segue l’amato sulla terra per offrirgli i doni della propria scienza magica e sapienza cosmica. La complessa tessitura mitica e narrativa delle opere che evocano le due fate non può certo ridursi al contrasto dei loro caratteri e dei loro comportamenti, ma questo contrasto ha un significato cruciale che potrei riassumere così: l’immaginazione ci può imprigionare o liberare; la rêverie, la fantasticheria, il sogno, può essere una trappola, un girare a vuoto, un esercizio sterile e perfino tossico oppure un cammino vitale e nutriente per l’anima. Non è un caso se spesso, dal Medioevo al Seicento, le fate sono state assimilate alle streghe: l’immaginazione può davvero invischiarci nella spirale tortuosa del demoniaco; tuttavia, come osserva con lucidità e passione Carla Lomi, essa conserva sempre nella sua sostanza femminile, cioè nel suo legame archetipico con l’anima, una parte di luce, una riserva di energia poetica, una polla d’acqua viva che, liberandoci dalle idee rigide e unilaterali (dagli schemi moralistici, dalle pesantezze del razionalismo e del pensiero unico), può rinnovarci rigettandoci senza tregua verso la verità sacra e miracolosa del mondo.
Di fate ci parla anche il racconto di una tra le più celebri scrittrici dell’Ottocento, la francese George Sand: Il crepuscolo delle fate, appena tradotto e introdotto da Angela Cerinotti (La vita felice, pagine 196, euro 13,00). Precipitato, durante una passeggiata in montagna, in un abisso che porta alla valle in cui vivono le fate, Ermanno, piccolo figlio di un principe, è accolto e, per così dire, adottato da una di loro, Zilla. In realtà, benché lui si affezioni a lei come a una nuova madre, per la fata il bambino non è molto diverso da un oggetto curioso, da una bestiola o un giocattolo con cui trastullarsi. Dopo aver bevuto una coppa miracolosa, tutte le fate, un tempo umane come noi, sono diventate immortali, ma questa condizione le ha private della capacità di provare sentimenti. Solo chi, come gli uomini, è votato alla morte può conoscere l’amore. Zilla, però, non è così immune dall’amore come crede: una sottile crepa nella sua corazza d’indifferenza si allarga sempre più, ma questo suo inconsapevole, graduale aprirsi all’amore la porterà inesorabilmente alla morte. Nel frattempo una sorta di tempesta morale sconvolge la comunità delle fate fino a indurle a litigare e disperdersi negli angoli più impervi del mondo.
Non è facile dire cosa significhi questo testo senz’altro minore all’interno dell’opera della Sand ma innervato, almeno in alcune parti, da una sorta di fascino lunare. Da un lato il racconto sembra dirci che senza l’amore nulla ha senso, e che la morte non è un prezzo eccessivo per conoscerlo. Dall’altro, però, ci suggerisce che lo spirito vero, numinoso delle fiabe, e delle fate che ne sono l’emblema, è quello della fantasticheria allo stato puro, cioè di una leggerezza, di una gratuità irriducibile ai significati, alle tesi e alle “morali”. Evocando le fate nella loro bizzarria non umana la scrittrice gioca, fa capriole, si diverte; non appena tenta di umanizzarle, queste creature d’aria recalcitrano alla presa della sua penna o corrono il rischio d’irrigidirsi, di cadere nel melodramma sentimentale. Forse, giocando di punto e contrappunto con i propri pensieri in fuga come uccelli, George Sand non ha solo voluto comporre un inno all’amore da un angolo prospettico inusuale ma ci ha voluto ricordare che, nella nostra modernità disincantata, non serve parlare d’amore se non sappiamo «cavalcare le nuvole sognando», perché solo la luce viva dell’immaginazione può portarci verso il miracolo di gratuità e di bellezza del mondo, verso le cose senza fondo come i segreti delle stelle, come «il mistero delle pietre e il linguaggio delle acque», come la poesia.