Stifter Bachmann, Casa delle associazioni a Scalderes (Oliver Jaist)
Come una sorta di isola in mezzo all'Europa, le Alpi da terra di frontiera e divisione sono diventate uno spazio condiviso, un vero e proprio laboratorio dal punto di vista sociale, ambientale e anche industriale. Sulle Alpi per lungo tempo si sono proiettate due visioni diverse, persino alternative: quella degli abitanti e quella dei viaggiatori e quindi del turisti, anche con un importante impatto di massa.
Oltre i luoghi comuni, come sta cambiando il mondo alpino e la sua percezione? L'architettura è un punto di vista privilegiato per osservare questi fenomeni, sia come analisi che come motore attivo di trasformazione. Ecco quindi una riflessione a più voci, avendo come spunto la mostra "Architetture recenti in Alto Adige 2012-2018" in corso fino al 13 gennaio a Merano. Giunta alla terza edizione, la rassegna ogni sei anni fotografa l’orizzonte architettonico sviluppatosi in Alto Adige, da due decenni una delle aree più vive sotto questo aspetto a livello europeo.
Walter Angonese: «Spirito pratico e pensiero europeo. Ma attenzione al rischio marketing»
Walter Angonese è una figura centrale dell’architettura altoatesina. Laurea a Venezia, vive e lavora a Caldaro, dove è nato nel 1961 e dove ha appena realizzato la nuova biblioteca. Dal 2011 è ordinario di progettazione all'Accademia di architettura di Mendrisio. La terza edizione di “Architetture recenti in Alto Adige” lo ha premiato per la Casa Dalle Nogare, a Bolzano, edificio in parte ipogeo con un’abitazione e uno spazio espositivo.
Esiste un genius loci dell’architettura alpina?
«Io credo moltissimo nei luoghi, l’architettura deve nascere dai luoghi: il che non vuol dire per forza continuità del costruire. Un rapporto spaziale può essere anche per contrasto. Il contesto è fisico, culturale, sociopolitico. Io penso che questo costruire nell'arco alpino sia un fatto contestuale. Ma l’eterogeneità di contesti non solo da regione a regione ma anche da vallata a vallata, fa sì che non esista un denominatore comune. Sono scettico quando un pezzo di legno di larice diventa corrispettivo semantico dell’architettura alpina. Come non credo negli a priori tradizione o moderno. Prendo sul serio gli elementi dell’una e dell’altro. I miei edifici sono ibridi, probabilmente non catturano mai il 100% del consenso, perché sono ambivalenti, sono difficili da categorizzare… Questo è il mio modo di lavorare in concetto di continuità e contraddizione. La contraddizione mi dà una possibilità di fare contemporaneo, la continuità è la garanzia che non c’è un completo scollamento dal contesto. Scelgo la libertà degli spazi interstiziali».
Anche il Sud Tirolo è uno spazio interstiziale...
«Potrebbe essere il più grande generatore di un pensiero europeo. Abbiamo studiato in Italia, Austria, Germania, Svizzera. In un secolo di appartenenza italiana la nostra cultura, storicamente legata al nord, ha recepito tante cose del bacino culturale mediterraneo. Ma è sempre stata una terra di transizione. Nel paese in cui vivo gli edifici tardorinascimentali sono stati costruiti da maestranze comasche... Le etichette sono fenomeno recente, dovuto alla politica».
Questo territorio può diventare un laboratorio del rapporto tra architettura, modernità e ambiente?
«L’Alto Adige, come altre zone dell’Italia settentrionale, ha un approccio concreto alle questioni. Io credo che sia una eredità contadina. Il nostro dna è legato per necessità al fare, a un saper costruire dovuto all’esperienza. Non sottovaluto il lato intellettuale, ma credo che i vincoli dettati dal territorio e la consapevolezza di doverli risolvere, siano le basi del presente. Da noi ci sono opportunità: le abbiamo cercate, volute, create. Cosa che avviene poco nel resto del paese. Il nostro successo è dovuto a una dimensione socioculturale e sociopolitica e al fatto che siamo un'area economicamente funzionante. È stata sfruttata al meglio l’opportunità di autoresponsabilizzazione offerta dall’autonomia. Se può essere un modello per l’Italia, è un equilibrio tra discorso intellettuale e concretezza».
E il fronte sostenibilità?
«È un tema su cui occorre un distinguo: da indicare dinamiche sociali e stili di vita è degenerata a puro marketing di cappotti termici. Sul tema ho voluto portare un contributo con il progetto del Centro visitatori del Lago di Carezza. Lo spunto era pratico: rendere accessibile il livello del lago ai portatori di handicap e mettere ordine nel caos del villaggino di chioschi. A 500 metri dal lago c’è una segheria. Da quei boschi si ricavano sia i legni più pregiati per i liutai di Cremona sia legname di bassa qualità, usato in cantiere o per la combustione. Io volevo dare a quest’ultimo un altro valore. L’edificio di Carezza lavora con un solo elemento: un’asse di legno di quarta categoria, moltiplicato fino a costruire l’intero corpo, sia per la parte lignea sia per le casseforme, poi reimpiegate nelle zone non visibili. Sostenibilità a km zero... virgola cinque».
Walter Angonese, Centro visitatori del Lago di Carezza - Copyright: Paolo Riolzi
feld72: «Diminuisce sempre più la distanza con le città, serve uno sguardo globale»
Lo studio feld72 ha base a Vienna, dove è stato fondato nel 2002, e a Caldaro. È composto da partner austriaci, francesi e due altoatesini: Michael Obrist e Peter Zoderer. Appartengono, lo dicono loro, alla “generazione Erasmus”. Se a Merano sono stati premiati per un complesso residenziale ad Appiano, a ottobre hanno vinto la Medaglia d’Oro all’Architettura Italiana per un asilo realizzato a Valdaora, in Val Pusteria. «Quando siamo partiti venti anni fa per studiare – racconta Obrist - era inconcepibile fare architettura in Alto Adige. Poi la situazione è cambiata è venuto il grande momento degli appalti pubblici e concorsi. Anche noi abbiamo cominciato con un concorso, per la cantina sociale di Caldaro. Il progetto era stato causato proprio dal cambiamento della realtà delle aziende agricole, che volevano un edificio che desse l’immagine della trasformazione strutturale delle cantine».
Gli studi altoatesini lavorano soprattutto in loco, la vostra è una realtà cosmopolita. Cambia l’approccio?
Zoderer: «È sempre il contesto ad aprire una domanda. Nell’asilo di Valdaora ci sono tre livelli diversi: il paese, la “casa¨ e i bambini. Nello spazio deve vivere liberamente il dialogo tra luogo, architettura e utente. La gente ha subito apprezzato che l’edificio si inserisce con naturalezza nel contesto. Abbiamo pensato l’area di accoglienza perché i genitori possano incontrarsi e parlare: un fatto importante in paesi piccolini dove, rispetto a una volta, si registrano tante presenze nuove, persone che non conoscono ancora bene il tedesco o l'italiano. Sono zone di integrazione. Ed è importante che funzionino in maniera morbida».
Obrist: «È un filo comune a tutti i nostri progetti, la grande e la piccola scala: l’architettura vista come strumento sociale. Aprire le possibilità attraverso l’architettura stessa, vederla come strumento performativo. La forma è la conseguenza della performatività. In Alto Adige ci interessa vedere la trasformazione della “provincia”, dove anche nelle valli remote ci sono ormai elementi di cosmopolitismo, dovuti al ritorno di persone che si erano allontanati per studiare. il ritorno c'è sempre stato, per l'alta qualità della vita. ma era un compromesso: oggi non più. C’è inoltre una importante dimensione industriale, ad esempio: oggi in Sud Tirolo, come in altre zone alpine, ci sono aziende leader mondiali in settori poco appariscenti come l’automotive, che qui ha fatturati enormi. C’è una dimensione verticale del territorio unificata temporalmente dall'uso dell'automobile, con la quale o senza vivere in Alto Adige cambia completamente. C’è il lavoro nella grande industria o nel turismo e poi nel dopolavoro si è sulle Dolomiti. C’è una parallelismo di mondi che sta emergendo, anche grazie al ruolo delle donne che vanno emancipandosi, attraverso il lavoro e, di nuovo, l’auto ne aumentano la mobilità oltre il piccolo paese di montagna, che altrimenti può diventare una prigione».
O. «Diversi nostri lavori riguardano housing per cooperative. Un tema edilizio affrontato spesso con banalità, con risultati che hanno incidere il tessuto dei villaggi. Abbiamo fatto più progetti, tutti basati sulla formulazione di un masterplan, due dei quali sono stati realizzati, ad Appiano e a Caldaro. Sono fenomeni che di solito si vedono nelle grandi città, dove l’housing è uno strumento per creare comunità. Qui siamo partiti da una comunità forzata perché, per quanto con forma cooperativistica, ognuno cercava una dimensione autonoma. Abbiamo cercato fin da subito l’opposto, di far capire cioè che la comunità ha vantaggi su molti aspetti. E siamo arrivati al punto che loro stessi hanno voluto investire sullo spazio semipubblico, una sfera di incontro per tutti, uno spazio che andasse al di là del giardino privato e desse un grande surplus di qualità di vita. Ci siamo arrivati con lunghi processi partecipativi».
Quali sono le frontiere?
O. «L’ipogeo, ad esempio. Per l’Alto Adige l’ambiente ha valore in sé, per l’agricoltura e il turismo. Eppure vengono continuamente costruiti grandi volumi, come i depositi delle mele, spazi enormi, privi di luce, in cui le persone lavorano in spazio limitati mentre tutto il resto è gestito attraverso l'automazione. Sul territorio allo stesso tempo c’è un enorme know-how di tecnologia dell’ipogeo, grazie ad esempio al tunnel del Brennero. Quali nuovi funzioni possiamo mettere dentro le rocce per liberare spazi preziosi per la vita? Perché in Sud Tirolo lo spazio è prezioso, ed è un tema molto vivo nel dibattito»
Z. «Nei paesi si fa un’alta qualità architettonica, ma restano begli oggetti. Ma non conta fare solo un asilo o ampliare il cimitero, serve un ragionamento su scala più ampia sulla gestione dei problemi. Lo stare a Vienna, da questo punto di vista, garantisce una distanza ideale per l'osservazione».
O. «La questione è troppo importante perché sia lasciata ai soli architetti. Pensiamo al miracolo dell’architettura nel Voralberg. A partire dagli anni 90 hanno dato vita a migliaia di oggetti bellissimi ma non si sono accorti nel frattempo di aver costruito in fondovalle un’enorme città, senza gestirla come tale. Da noi il problema non esiste come urbanizzazione ma in altre forme. Serve partire dalla fase zero, capire prima di costruire il futuro di zone di città o territorio. Valutare, con l’ausilio di competenze diverse, lo sviluppo tecnologico, culturale e sociale. Le forme sono l’ultimo bastione».
Marco Mulazzani: «Questa architettura è specchio di dinamiche sociali e culturali in continua trasformazione»
Nell’ultima Medaglia d’Oro all’Architettura Italiana sono stati premiati progetti in Val Pusteria, a Cles e in Cadore. Dopo il caso dell’Alto Adige si allarga il boom dell’architettura alpina? Marco Mulazzani, storico dell’architettura a Ferrara e ideatore dei convegni “Alpi in divenire” ad Aosta, preferisce una lettura più articolata: «C’è fermento. È significativo che nel 2016 nove ordini professionali di aree montane si siano consorziati nell’associazione Architetti Arco Alpino, dando anche vita anche a un premio». Bisogna però guardare alle tendenze strutturali. «Io credo sia più il segno di una maggiore diffusione in Italia, nonostante le difficoltà, di una migliore qualità dell’architettura costruita. In alcune aree questo è più vistoso».
L’Alto Adige, in ogni caso, resta un caso speciale?
«Ci possono essere nell’arco alpino presenze singole, o nicchie territoriali, ma le vicende non sono paragonabili. Centrale e unico è stato il ruolo di lucido committente svolto dalla Provincia autonoma, a cui ha risposto una generazione matura di architetti, pronta a lottare per ottenere spazio. Questo ha generato un effetto a cascata sulla committenza privata. La visione dell’amministrazione pubblica non si è limitata alle città, anzi… Nella prima edizione delle mostre meranesi colpì la diffusa presenza di architetture di qualità nelle valli. Ora si percepisce una contrazione dell’azione pubblica e dei concorsi. Questo non significa che ci sia un’inversione di tendenza. Può anche significare che ci sia ormai una massa critica sufficiente perché la trasformazione proceda per proprio conto».
modus architects, edificio scolastico a Firmian, Bolzano (Oskar Da Riz) - OskarDaRiz
Lei nel catalogo della mostra di Merano riprende la definizione di “architettura dell’autonomia” con cui Silvano Bassetti, assessore all’urbanistica di Bolzano, indicava l’uscita da antonomie storiche in una nuova prospettiva interculturale.
«L’architettura è importante per percepire le trasformazioni di una cultura; anzi dovrebbe esserne motore. Ma il concetto di “identità culturale” è da prendere con circospezione, perché la storia culturale del Sud Tirolo è una dinamica di continua trasformazione, anche in termini di tensioni e conflitti. Non è un caso che gli episodi eccezionali, come il Messner Museum di Zaha Hadid, di fatto non riescono a esprimere con la stessa forza degli autori locali questo carattere di metamorfosi costante verso una condizione di complessità che tenga conto del paradigma universale e del contesto particolare».
Il lungo rapporto tra architettura del moderno e Alpi si è spesso ancorato al fenomeno del turismo, che fece riscoprire le Alpi e portò una lettura diversa del territorio rispetto a quella dei suoi abitanti. C'è invece qui a una convergenza verso un linguaggio condiviso tra chi le Alpi le guarda e chi le abita?
«Il rapporto si articola su versanti diversi. Nei primi maestri tirolesi come Holzmeister o Baumann si nota un arricchimento di un pensiero moderno “astratto” al confronto con i contesti geografici; nell’altra metà delle Alpi si è assistito al trasferimento nei singoli luoghi di una visione assoluta: pensiamo a casi come Sestriere, nati negli anni 30 ma che nel dopoguerra vivono una nuova epopea. Il modello Sestriere, non come modello turistico ma di rapporto tra architettura e luogo, alla distanza è entrato in crisi. In Tirolo, e non invece ad esempio in Val d’Aosta, è avvenuto il raddoppio del punto di vista. Il “motore” non è più solo l’architettura in rapporto al turismo. Anzi per paradosso un pensiero di un’architettura per il turismo oggi può essere dannoso, perché una parte di turisti si aspetta ancora di trovare l’immagine preconfezionata».