venerdì 10 ottobre 2014
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Sono trascorsi sessanta giorni dall’11 agosto, giorno dell’elezione del presidente della Federcalcio, in cui il “candidato antagonista” Demetrio Albertini, a malincuore ha dovuto accettare il verdetto dell’urna: Carlo Tavecchio nuovo capo del governo del pallone italiano. Una sconfitta annunciata: nonostante l’appoggio di calciatori, allenatori e arbitri, il Demetrio nazionale non ce l’ha fatta. Però a 43 anni, con un passato da campione autentico (nel grande Milan anni ’90 e vicecampione del mondo con la Nazionale di Sacchi a Usa ’94), dentro e fuori il rettangolo di gioco, a schiena dritta, con grinta, generosità e la solita passione si è rimesso subito in corsa.Adesso, su quali campi possiamo assistere alle sue sgroppate provvidenziali?«In tanti campi, dalle scuole calcio che seguivo prima del 2006, quando nell’estate di Calciopoli venni nominato vicecommissario straordinario, fino alle attività dell’Amref, dell’associazione Buon Pastore e della scuola San Carlo di Milano dove vanno i miei figli. Ho smesso di fare il pendolare con Roma e mi sto riappropriando di Milano e della mia milanesità».E dell’Albertini vicepresidente Figc cosa rimane?«Una grande esperienza dirigenziale maturata in otto anni, dei quali sette da vicepresidente, portandomi dietro un bagaglio fondamentale di vent’anni di carriera da calciatore. Ma dopo l’11 agosto, per correttezza e trasparenza, ho deciso di uscire dalla Federazione, così come mi sono dimesso dall’Aic. Adesso sono un osservatore della Community Uefa e Fifa».Girando per l’Europa cosa si dice del nostro calcio?«Posso assicurare che all’estero con l’elezione di Tavecchio non abbiamo fatto una bella figura. Giancarlo Abete tra le tante cose che mi ha insegnato c’è anche quella che il presidente della Figc rappresenta tutto il movimento e il nostro Paese... L’11 agosto è stato espresso un voto di sopravvivenza».Qualcuno obietterà che dal tono che usa non ha ancora smaltito la “sconfitta”?«Le sconfitte nella vita sono altre, io accetto sempre quello che è il verdetto in un contesto democratico, più difficile invece è accettare un sistema in cui Dilettanti e Lega Pro, assieme, in sede elettorale hanno il 51%, quindi da sole possono eleggere il capo del nostro calcio, ma da sole poi non possono governare. Una doppia anomalia…».Anomala pare sia stata anche la “longa mano” del presidente della Lazio, Claudio Lotito, forse decisiva nella terza votazione.«Non conosco tutte le armi segrete di Lotito, quelle che conosco non mi piacciono, ma sicuramente possiede l’arte della persuasione. Io so che era mio dovere correre come valida alternativa per la presidenza. Ci sono delle battaglie che si combattono a prescindere dall’esito finale, ma perché lottando per dei principi giusti si cerca la via del cambiamento».Tavecchio, intanto, ha cambiato un po’ il suo lessico familiare. Dopo l’uscita sugli “Optì Pobà”, comunque, tanti lo hanno difeso dicendo che il suo concetto è sbagliato nella forma, ma giusto nella sostanza.«Quell’uscita non è giusta neppure nella sostanza e la Uefa infatti gli ha dato sei mesi di stop. Uno deve parlare delle cose che sa e non copiare quelle di altri sistemi che non risolvono i nostri problemi. Parlare di tutela della Nazionale bloccando l’ingresso di calciatori extracomunitari vuol dire affrontare un falso problema, perché i loro ingressi sono già controllati dalla legge Bossi-Fini. Giusto sarebbe creare una commissione di qualità per il rating certificato degli stranieri che arrivano nei nostri campionati e farla in base alla categoria in cui vengono tesserati».Qual è lo stato dell’arte del nostro pallone?«Purtroppo si continua a vedere la Federcalcio come un mezzo più che come un fine. I presidenti delle società sono prigionieri della legge Melandri, dipendono per lo più dai finanziamenti per la Serie A. Mentre oggi il mondo professionistico e quello dilettantistico hanno esigenze di gestione e di programmazione completamente diverse e vanno create delle autonomie interne in seno alla stessa federazione».In questa condivisione ci rientra anche la tanto sbandierata riforma dei campionati?«Per una riforma davvero sinergica a me non basta sapere come e quando esisterà una Serie A con 18 squadre, una B a 20 e una Lega Pro a 60 come ora. A me interessa capire prima di tutto il numero delle promozioni e delle retrocessioni e poi avere un quadro ben definito del progetto. Con questo navigare a vista, senza preoccuparci della effettiva sostenibilità finanziaria e organizzativa dei club, in quindici anni abbiamo visto “sparire” cento società. Tra queste anche il mio Padova in cui ho disputato il primo campionato da titolare».Era la stagione 1990-’91 e le rose delle squadre contavano davvero un massimo di quei 25 calciatori a cui lei vorrebbe tornare.«Le rose a 25 è una proposta avanzata da Lotito che però poi nella sua Lazio non la concretizza. Eppure non esiste un veto per introdurre la norma già da domani, magari con l’inserimento nella rosa della prima squadra di almeno 8-10 elementi del vivaio. Inoltre, garantire collaborazioni tecniche tra società di massima serie e quelli di categorie inferiori è molto più utile e trasparente che non incentivare le multiproprietà dei club in mano a uno stesso presidente».Tavecchio per un affinamento tecnico su scala nazionale ha parlato dell’operatività di 23 centri federali.«Poter andare sul territorio è una buona “mission”, ma questo tipo di approccio funziona nelle realtà come la Germania che ha soltanto una lega e tutto il resto viene gestito dalla federazione. Io sono per un rafforzamento della centralità di Coverciano: nuove strategie e ulteriori investimenti spettano all’officina storica dove sono nati e cresciuti i nostri migliori talenti».Stadi di proprietà dei club: un miraggio?«Ne sento parlare dal 2006. La legge manca ancora perché qualche presidente chiede libertà illimitata nella costruzione degli impianti e gli enti locali temendo speculazioni bloccano tutto». Intanto si chiede alle società di contruibuire alle spese per la sicurezza negli stadi.«Il nodo della questione è che i nostri tifosi sono prima di tutto dei cittadini e quindi i loro diritti e i loro doveri all’interno di uno stadio sono gli stessi che andrebbero rispettati quotidianamente nella società civile. Fuori e dentro gli stadi europei non esiste una condizione di “extrapolizia” come in Italia, quindi dobbiamo arrivare a un ordine pubblico tale, in cui si va ad assistere a una partita di calcio a San Siro nello stesso modo in cui si andrebbe ad ascoltare un concerto».Avrebbe scelto anche lei Conte come ct?«Per fare la stessa scelta avrei dovuto condividere il progetto-Tavecchio, fermo restando che Antonio oltre che un amico è un grande allenatore. Del resto, uno che ha detto che la “Nazionale è il top dei club” era impossibile non contattarlo».
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