Un omaggio a «un amico, a un musicista, a un’anima gemella». È
My old friend, il nuovo disco che Al Jarreau dedica a George Duke, figura di musicista impossibile da riassumere in poche righe – come d’altronde per il 74enne vocalist di Milwaukee – scomparso il 5 agosto di un anno fa: tastierista per Frank Zappa e Miles Davis, jazzista fusion in un supertrio con Jean-Luc Ponty e Billy Cobham, autore di successi R&B con Stanley Clarke, produttore per Michael Bolton, George Benson, Dee Dee Bridgewater e Stevie Wonder. E naturalmente Al Jarreau, con cui le strade si erano incrociate nel 1965 nei club di San Francisco: «Eravamo come due bambini al parco giochi – racconta al telefono da Los Angeles –. Ci siamo ritrovati sul modo di intendere la musica. Parlavamo della necessità di avere buone melodie avvolte da accordi che ti facessero ridere o piangere. Entrambi ci siamo innamorati del R&B, del jazz, della pop music, entrambi abbiamo rifiutato di costruire limiti, per noi sarebbe stato come rinchiudere in prigione la musica. Era la nostra filosofia: essere aperti a tutto ciò che sarebbe arrivato al nostro cuore. Questo è lo spirito. Perché c’è qualcosa anche in una polka (si mette a canticchiare
Rosamunda, nda) che può rendere la tua musica migliore. Questo è quanto abbiamo condiviso». E a sua volta Jarreau condivide i solchi del disco, in uscita il 30 giugno, con artisti come Dianne Reeves, Marcus Miller, Stanley Clarke, Gerald Albright.
Ha scoperto una parte di sé in questo viaggio nella musica di Duke?«Sì, ho riscoperto parti di me stesso che avevo dimenticato. E mi sono dato una chance per dirlo. Ad esempio nel testo che ho scritto per
Summer breezin’ dico quanto amo la bossanova e la musica brasiliana. Oggi quel sound non lo si trova più: una perdita enorme. George mi ha dato l’opportunità di affermarlo proprio grazie a una bossanova, dolcissima quanto
Girl from Ipanema. Facendo questo disco ho capito che devo fare un disco in Brasile sulla musica brasiliana».
Lei nell’album ha scritto anche il testo per «Backyard ritual», un brano creato da Duke per Miles Davis.«Il testo è una riflessione sugli aspetti spirituali del fare musica. "Look for the church in your yard, look for the church that’s in your heart" (cerca la chiesa nel tuo cortile, cerca la chiesa che è nel tuo cuore). Il cortile è simbolo dell’intimità più profonda. Nel cortile puoi avere sassi e fiori oppure immondizia, non importa: perché ci puoi andare e praticare la tua spiritualità. È persino più importante che farlo in una cattedrale. La cattedrale è bella, certo, ma la chiesa è nel tuo cuore. Per dirlo voglio usare questo pezzo così cupo e scuro di Davis. Perché nella musica Miles aveva il cuore, la chiesa, le cattedrali e le sue liturgie».
A questo proposito, lei ha iniziato a cantare a 8 anni proprio nelle funzioni della Chiesa avventista del Settimo Giorno, dove suo padre era pastore. Cosa ha significato questo nella sua formazione e nella sua arte?«Ho trascorso molti anni in chiesa come in una grande scuola. Mio padre era un predicatore, mia madre era la pianista della congregazione. Così io sedevo sempre sulla panca del pianoforte accanto a lei mentre suonava. Essere lì è stato come studiare la parte spirituale dell’uomo. La chiesa, il luogo di preghiera, è come un laboratorio in cui si cerca ciò che siamo davvero, che è una cosa ben più importante della pelle o del sangue. Ho trascorso molti anni con queste persone impegnate in questa ricerca. E così ora è parte di me, ed è presente in ciò che dico e scrivo. È la ragione di ciò che ho scritto in
Backyard ritual. Ed è la ragione di ciò che ho scritto in
Mornin’, quando canto "Il mio cuore salirà con l’amore che è raro e vero e so di potere, come ogni uomo, stendere la mia mano e toccare il volto di Dio". Questo è il messaggio di
We’re in this love together. È il contenuto di tutto ciò che canto. Ed è il messaggio della chiesa: ma qui è in pop music!».
Negli anni scorsi ha sofferto di problemi cardiaci e di una grave polmonite. In che modo queste esperienze hanno cambiato lei e il suo modo di cantare?«Vede, ogni cosa che facciamo o che ci capita ci cambia un po’. Persino inciampare per strada... Non solo i problemi al cuore: nel 2001 alcune vertebre del mio collo sono collassate e così ora non cammino più bene. Altri piccoli incidenti mi hanno cambiato il respiro, che non è più quello che ho sempre avuto. Tutto questo ti insegna qualcosa, ti fa apprezzare in modo diverso le cose e ti fa cantare in maniera diversa. Pensi alla tua vita e ti accorgi di essere una nuova persona. Ora mi sento in trasformazione. Tra dieci anni voglio cantare come un nuovo Al Jarreau. E spero di avere qualcosa da dire di più importante e di più profondo. Come un ragazzo di 84 anni».