Un tour, il primo della sua carriera nei teatri, e un libro edito da Piemme, il secondo nel quale parla della propria fede, l’ancora «che ha evitato mi perdessi». Al Bano Carrisi si racconta alla vigilia del suo 70° compleanno (che cadrà il 20 maggio): e con la medesima semplicità ruspante delle sue canzoni parla di errori e sconfitte, successi e fortune, ma senza retorica. Anzi sottolineando con forza una parola: «spontaneità». Quella che l’ha reso famosissimo nel mondo cantando in modo semplice amore e Italia, quella che gli fa dire «resto un estraneo nello show business. Forse anche perché quando ricevi il dono della fede non riesci proprio, a vivere la vita in modo diverso da come ti hanno insegnato».
Partiamo dai 70 anni. Ha dei rimpianti artistici? Con una voce come la sua forse scegliere un altro repertorio le avrebbe dato ben diversa credibilità…Se mi guardo indietro, vedo sicuramente errori ed ingenuità. Non ho saputo diventare manager di me stesso e non ho capito il mio potenziale sino in fondo. Ma non rinnego il repertorio. Semmai, non aver saputo dosarmi. Ma io non vivo, se non canto.
Si è sentito anche trascurato dal suo Paese?Be’, negli anni Settanta dovetti fare l’emigrante, per lavorare. E in Germania, Francia, Spagna, Grecia, c’era meritocrazia. Qui? Diciamo meno.
Nel concerto «È la mia vita: una storia da cantare», il 4 maggio a Sanremo, il 10 a Bergamo, e poi in autunno a Padova e Roma, si racconta fra parole e «Nel sole», «Nostalgia canaglia», «Felicità». Ma anche «Amanda è libera». Ci sono canzoni sue che vorrebbe rivalutate?Io ho sempre scritto anche cose che andavano oltre l’amore. Però è il pubblico a scegliere cosa rimane e cosa no, decide lui. E
Felicità è rimasta.
Più dei brani degli ultimi Sanremo. La musica leggera non racconta più la società, oggi?Vedo voglia di imitare gli americani, manca la spontaneità. Ma era anche un periodo fortunato, non merito mio: anni fa la musica lasciava segni anche quando era facile, oggi è un prodotto usa e getta.
Per lei cosa è, esattamente, la musica?Grande terapia. Quando da ragazzo lavoravo duro, quando mi trovai da solo a Milano, dopo la tragedia di mia figlia. La musica ci fa guardare in alto, ci stacca dalle fatiche della vita. Anche se poi per me c’è anche la fede, che è un’ancora di salvezza.
Nel concerto, il suo primo nei teatri, la racconta?Sì, ma attraverso le
Ave Maria. Cantando.
E scrivendo: «Fra cielo e terra» è il suo secondo libro in tema. Cosa è scattato in lei per farlo?Me l’hanno chiesto. E mi sono detto: perché no? Mi accompagna da sempre. Magari posso aiutare qualcuno.
E i Dieci Comandamenti riletti da Al Bano possono interessare davvero qualcuno, secondo lei?Non certo perché dico cose straordinarie… Ma sono un personaggio pubblico, e molti cercano risposte da chi è su un palco. Allora io provo a darle riflettendo su come i valori si vivano oggi rispetto a cinquant’anni fa. E raccontando me: momenti bui compresi.
Fra essi il divorzio da Romina. Non ha sentito di deludere, di tradire quanto cantava, quando accadde?Guardi, non avevo mai pensato al divorzio. E per otto anni le ho provate tutte. Ma non c’era nulla da fare. Lasciarci fu inevitabile quanto doloroso.
In generale, sente una responsabilità etica per quanto dice, scrive, fa da persona appunto pubblico?Molto. Per questo canto quello che sono, in fondo.
Nel libro parla dell’odierna tentazione del potere. Nei momenti di grande successo lei l’ha avuta?No. Avevo capito subito quanta fatica c’è dietro le canzoni. E i miei genitori mi avevano educato bene.
A proposito. Ragiona molto sui giovani, cosa pensa del fatto che i suoi figli non credono?Sa, io ho vissuto la fede in un mondo diverso. Loro hanno perso il contatto con le radici e certi valori, hanno viaggiato il mondo incontrando influenze diverse. È un rimpianto? In parte. Li amo: ma il loro mondo è diverso, e non volevo costringerli.
Scrive pure della morte. A settant’anni, ci pensa?Poco. E non ho paura, ovvio. Spero solo sia dolce.
Ma Al Bano, oggi, è ottimista o pessimista?Beh, io canto e credo. La musica mi fa volare, la fede mi disseta. E poi non vivo per lavorare e basta: anche se ho ancora tanto da fare. E da cantare, cercando di mettere i valori dentro le emozioni.