sabato 8 dicembre 2012
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C'è aria di neve oggi a Milano, nostalgica e struggente come quella che cantava Sergio Endrigo. C’è aria di tristezza attorno alla città, fino ad Ossona, perché il Cina è volato via, per sempre.Un’esistenza leggera, come un fiocco di neve, quella di Luigi Bonizzoni, detto il “Cina”, uno dei rari allenatori galantuomini di cui può ancora andare fiera questa nostra strana repubblica pallonara.Era nato a Milano nel 1919, nei pressi di Piazza Loreto: «In via Bambaia 2, per la precisione... Milanese vero - ripeteva orgoglioso nella sua autobiografia ll futuro di ieri (Albalibri) -. Ricordo gli operai del Comune che passavano per strada ogni sera ad accendere i lampioni. E da pochi anni avevamo scoperto la macchina da scrivere...». E con quella, dal 1990 fino a qualche tempo fa aveva scritto articoli esclusivamente per Avvenire. Noi della redazione sportiva siamo stati i suoi amici e un po’ i suoi nipoti. Lo “zio Cina”. Quel nomignolo glie lo aveva affibbiato il fraterno coscritto Gianni Brera, «per via dei miei occhi a mandorla, “el cinès”, secondo lui...».Sorrideva divertito quando ripensava alle partite con Brera da ragazzi, sul campetto di Lambrate: «Ogni volta che mi incontrava, Gianni pretendeva che testimoniassi sulla bontà del suo tiro di collo e diceva a tutti che lo avevo allenato io. Ma era una balla...». Amava solo la verità il Cina e l’autentica cultura dello sport che lo portava a sentirsi «uno che a novant’anni si aggira ancora come un Cicerone in questo mondo del calcio». Prima di affrontare la «materia football», sciorinava in sequenza i nomi degli eroici Baloncieri, Banas, Garbutt, Felsner, Viola, concludendo ammirato: «Sono stati loro i miei indimenticabili Maestri». Ma non si vantava mai di essere stato lui il “maestro” di ben cinque ct della Nazionale, avendo allenato Edmondo Fabbri, Ferruccio Valcareggi, Dino Zoff, Cesare Maldini e Giovanni Trapattoni. Il Trap di recente ci ha confidato: «Bonizzoni fu il mio primo allenatore, in un tempo in cui il tecnico era prima di tutto un educatore».C’è chi si vanta per due presenze in Serie C, il Cina invece teneva trofei e attestati di stima di quel mezzo secolo passato a insegnare calcio dalla panchina fino alle aule di Coverciano, sotto una montagna di appunti e libri di tattica, scritti con la sua vecchia Olivetti. «Non ho nessuna nostalgia per il passato, perché il passato ha sempre stimolato la mia memoria e questo è stato il segreto per continuare a vivere, nonostante la sconfitta più grossa... No, non le partite e le occasioni perse e neppure l’irriconoscenza di questo mondo. Quelle sono niente rispetto alla perdita di Guglielmo...». Il suo primogenito, morto d’infarto, a 42 anni, durante una partita di pallavolo. «Una ferita che non si rimargina nel cuore di un genitore, ma che in me ha aperto un cancello ignoto in cui sono entrato e ho capito che nella vita bisogna fare sempre del bene», ripeteva ogni volta che ci incontravamo.Il suo “benefattore” nel calcio era stato il patron del Brescia, Piercarlo Beretta. «Nel ’52 prima di affidarmi la panchina mi mandò un mese a Londra a studiare calcio all’Arsenal. Allora, ero il primo tecnico italiano a compiere un viaggio del genere. Al ritorno gli presento la nota spese e Beretta mi fa: “Ma Bonizzoni dove è andato a dormire, sulle panchine di Victoria Station?”». Erano i semi dell’umiltà, quelli che portano dritti nel paradiso calcistico.Da lì in poi solo panchine importanti, a cominciare da quella del Milan tricolore della stagione 1958-’59. «Il presidente Rizzoli mi chiamò e disse: lei è l’unico responsabile della squadra e Gipo Viani il direttore sportivo. Rizzoli era avanti di cinquant’anni, mi aveva messo a disposizione due psicologi a supporto di quel Milan con cui vinsi lo scudetto». Tutti i presidenti, a cominciare dall’eccentrico principe Raimondo Lanza di Trabia, nobil padrone del Palermo, l’hanno amato e stimato. «C’è stato solo uno che mi ha cancellato proprio. Per il centenario del Milan, Berlusconi non mi ha spedito neanche l’invito....».

Quando si arrivava a parlare del Cavaliere, allora era meglio virare in fretta sulla «bella gente», come Padre Pio e il suo pupillo, il “Pepe” Schiaffino. «Gli ho sempre dato del lei, come a tutti i giocatori che ho allenato, si capisce. Ma Pepe è stato il più grande di tutti, tecnica e intelligenza superiore. Dopo che gli morì la moglie, non ricevetti più posta da Montevideo e allora ho capito che non sarebbe sopravvissuto a lungo senza il suo amore... Ora che anch’io ho perso la mia Erminia capisco ancora meglio che cosa deve aver provato povero Pepe...», ripeteva nell’ultimo periodo. Poi per tirarsi su, al telefono rileggeva una delle lettere di Schiaffino in cui l’omaggiava: «Caro Bonizzoni, non posso dimenticare l’importanza e la collaborazione dell’allenatore, ma soprattutto dell’uomo». Ecco cosa veniva prima di tutto per il Cina, l’uomo. «Essere allenatore vuol dire formare dei giovani perché diventino degli uomini. Per me allenare è significato guardare, prendere appunti, archiviare, dieci, venti cento block-notes che conservo ancora, perché ieri servivano a interpretare, oggi a raccontare».E nel ghiaccio di questa giornata d’addio, affiora il ricordo di un suo racconto che mi scaldava il cuore tutte le volte che lo riascoltavo dalla sua voce familiare. «Allenavo il Brescia quella volta che andai a sfidare il Vicenza del mio caro amico “Fuffo” Bernardini, l’unico vero “dottore” del nostro calcio. Faceva un freddo boia e allora nel secondo tempo mi fa: “Dai Cina, vieni qui da me a scaldarti”. Pensa oggi che direbbero? Due allenatori avversari, seduti stretti stretti sotto una coperta di lana e sulla stessa panchina... A un certo punto Fuffo sbotta: “Sei qui al caldo, mi hai fumato tutte le sigarette e state vincendo 3-0. Ma cosa vuoi di più dalla vita?”».Il suo aforisma esistenziale è sempre stato: «Nella vita l’importante è capire, ma si capisce sempre dopo, mai prima». Anche l’ultima telefonata si chiuse così, no anzi disse: «Ciao “bestiaccia”. Pensami caro, tienimi sempre vicino...». Ciao “zio Cina”, ti terremo sempre vicino.

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