mercoledì 14 settembre 2016
​Il coreografo afroamericano ha portato a Rovereto i conflitti fra le gang e un pezzo della sua storia: «Un un’era dominata dalla realtà virtuale il compito della danza è di creare un contatto vero e forte fra le persone.
ABRAHAM, passi di vita
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«Ora c’è un’esplosione sui media delle notizie sulle violenze subite dai neri americani e sulle loro proteste contro la polizia. Ma questo stato di cose dura da molto, molto tempo». Nell’elegante foyer del Teatro Zandonai di Rovereto, Kylie Abraham siede su una poltroncina rossa, a piedi scalzi, e parla in modo posato e riflessivo di una realtà che ben conosce perché ha segnato la sua gioventù. Il 39enne coreografo afroamericano oggi vive tra New York e Los Angeles (dove insegna all’Università della California). Tenetelo d’occhio perché Kyle Abraham è uno dei talenti emergenti più richiesti del momento. Merito di uno stile originale, un “neo-hip hop”, evolutosi dalla dance delle periferie urbane della natia Pittsburgh, che dona elasticità e vivacità a un gesto sofisticato e classico. Una danza che vuole raccontare storie a partire dal vissuto dello stesso artista.  Come l’ultima sua coreografia, Pavement, vista in anteprima nazionale al Festival di danza “Oriente Occidente” di Rovereto appena concluso, tema di quest’anno il conflitto. E il conflitto che Abraham mette in scena con un gruppo di sette eccezionali ballerini, è quello che vediamo ogni giorno in tv: quello delle gang che dominano per periferie facendosi la guerra fra loro e gli eccessi violenti della polizia bianca. «C’è troppa paura, non so se si riuscirà ad uscire da un problema così complicato. Come artista cerco di investigare lo stato della “Black America”, raccontando una storia di violenza a partire dalla schiavitù degli africani, la radice di tutto». Il lavoro si apre con Abraham in scena, le mani dietro la schiena, sdraiato a terra sulle note di un malinconico blues anni Trenta che ricorda i campi di cotone, e si chiude con tutti i ballerini, a terra, arrestati e accatastati l’uno sull’altro. Ma non c’è rabbia, bensì solo dolenti inni d’amore e di abbandono d’età barocca. Le note di Bach intonate dal contro tenore Philippe Jaroussky creano poetico straniamento mentre i ballerini si muovono armonici e fluidi, in jeans e camicioni a quadri, su un campetto da basket come ce ne sono tanti in tutti gli States. Il dramma solo per accenni: una lite, le luci rosse di una volante, il gracchiare della radio della polizia, spari a raffica, urla disperate di donne e pianti di bambini. L’ispirazione è il film Boyz N The Hood - Strade violente di John Singleton del 1991, storia di tre fratelli coinvolti nelle lotte tra gang rivali, in cui si salverà solo quello che rinuncerà a imbracciare le armi per proseguire gli studi. Abraham, che vide quel film a 14 anni, trasporta l’azione da Los Angeles a Pittsburgh per raccontare una rivalità tra due zone confinanti. «Ambedue queste zone sperimentarono negli anni ’50 un salto culturale, quando le leggende del jazz come Ella Fitzgerald e Duke Ellington si esibivano nei teatri locali e Billy Strayhorn vi passava la maggior parte della giovinezza – spiega il coreografo –. Cento anni dopo la loro costruzione, oggi quei teatri sono caduti in rovina e le strade che un tempo erano pieni di negozi a conduzione familiare e di palcoscenici jazz, oggi mostrano i tristi effetti della violenza delle gang, del crack e della cocaina». Una “giungla” come quella del film è l’ambiente in cui il giovane Kyle cresce. «Io frequentavo due scuole, la mattina una nel mio quartiere, Hill District, dominato da una gang, il pomeriggio un’altra scuola nel quartiere accanto, dominato da un’altra gang. Un pomeriggio il bus che mi riportava a casa mi lasciò nel posto sbagliato, e me la sono vista davvero brutta. Mi salvarono in extremis quelli della gang della mia zona. Purtroppo alcuni miei amici sono entrati in questo giro». Abraham invece è un ragazzo perbene, come la maggioranza silenziosa di quelle periferie: i genitori, di confessione episcopale uno, battista l’altro, lo portano a frequentare la chiesa da piccolo. «Ma dopo la morte di mia madre pochi mesi fa, ora mi risulta più difficile credere» ci dice in confidenza, addolorato, alzando gli occhi. Il ragazzino ama studiare, frequenta la Pittsburgh Creative and Performing Arts School applicandosi su violoncello, pianoforte e visual art, innamorato di Bach e Mozart ma anche dei Run DMC, AcDc e Prince. L’hip hop, la urban dance di strada, è nel suo Dna come in tutti i giovani afroamericani, ma è a 17 anni che scopre la danza contemporanea cui si dedica studiando a New York (dove ora risiede la sua compagnia Abraham.In.Motion) e perfezionandosi anche in Italia. Una delle sue prime coreografie, The Radio Showè ispirata al padre, malato di Alzheimer e di afasia, scomparso qualche anno fa. «Un lavoro sulla perdita di comunicazione che mette in scena la forza della radio, compagnia nei lunghi viaggi in auto della mia famiglia – ci racconta –. In particolare di due reti musicali che hanno accompagnato la mia infanzia e che sono state chiuse. Insieme alle conseguenze permanenti dell’Alzheimer e dell’afasia in una famiglia». Non a caso il nuovo lavoro che debutterà l’anno prossimo, come ci anticipa Abraham, si intitolerà Dearest Home, carissima casa, e sarà dedicato all’amore. Un amore che Abraham vede mancare nella politica americana di oggi: «Sono molto preoccupato per le prossime elezioni presidenziali, non sento un amore genuino per la gente nei discorsi dei candidati». In Pavement Abraham dà voce alla gente perbene: «Gli abitanti afroamericani delle periferie sono i primi ad essere vittime delle gang violente. Il problema è che non si sentono tutelati dalla polizia, manca la sicurezza. E si sentono discriminati. Non sarebbe così difficile intervenire: basterebbe la prevenzione da parte delle istituzioni, perché i delinquenti sono noti a tutti». Il suo pensiero va innanzitutto ai giovani. «L’importante è l’onesta della performance di artisti e la qualità – spiega –. Ho paura che i giovani, immersi nel web e nella realtà virtuale, perdano il contatto con la vita vera. Stiamo perdendo l’umanità, e il compito della danza è anche quello di fargli scoprire un contatto vero e profondo tra le persone».
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