Agnese Moro - archivio
«Quella ferita di 45 anni fa ancora sanguina, me ne accorgo girando l’Italia. Ma è mancata, e manca ancora, la capacità di farci i conti». Agnese Moro, terza figlia dello statista democristiano parla a Brescia di quella vicenda che ha segnato non solo la sua famiglia ma un Paese intero. Alle ore 9 del 16 marzo 1978 in via Mario Fani, al quartiere Trionfale di Roma, l’auto con a bordo Aldo Moro e quella della scorta furono bloccate all’incrocio con via Stresa da un gruppo di terroristi che aprirono immediatamente il fuoco, uccidendo in pochi istanti i cinque agenti, e sequestrarono Moro. Persero la vita l’autista, l’appuntato dei carabinieri Domenico Ricci (43 anni), il responsabile della sicurezza, l’inseparabile maresciallo dei carabinieri Oreste Leonardi (51 anni), l’agente di polizia Giulio Rivera (23 anni) e il vicebrigadiere di Ps Francesco Zizzi (29 anni) e l’agente Raffaele Iozzino, 24 anni. Per Aldo Moro iniziò un calvario lungo 55 giorni, concluso il 9 maggio, con il tragico rinvenimento del suo cadavere crivellato di colpi in una Renault 4 rossa in via Caetani. Il tema dell’incontro, I giorni dell’attesa e della violenza ricalca il titolo del libro di Michele Busi, presidente del Centro di documentazione bresciano (Gam, pagine 296, euro 15,00), che descrive il dramma di quei 55 giorni, per come furono vissuti dalla comunità cattolica bresciana, storicamente vivace e sensibile all’impegno politico come «più alta forma di carità», per citare l’illustre figlio di questa terra Paolo VI. Ed è gremita la sala “Montini” dell’Azione cattolica , che è fra gli organizzatori dell’incontro, insieme alle Acli e al Mcl provinciali, al settimanale diocesano La voce del popolo, al centro Alcide De Gasperi di Castegnato e alla “Casa della memoria”, l’associazione che si occupa di custodire il ricordo di una delle pagine più tragiche di quegli anni, la strage di Piazza della Loggia, che aveva sconvolto direttamente la realtà bresciana quattro anni prima di via Fani, il 28 maggio del 1974, causando la morte di 8 persone e il ferimento di altre 102. Un «filo rosso» che lega la strage fascista bresciana – accertata dalle sentenze, per una volta – e Via Fani lo vede anche il presidente dell’associazione delle vittime di quell’attentato, Manlio Milani, che, proprio con Agnese Moro, è uno dei principali animatori del “Gruppo dell’incontro” fra vittime ed ex della lotta armata, nel solco dell’idea riconciliativa della pena che animava il Moro giurista e costituente. Si suol dire, in genere, «con un po’ di retorica», sostiene Agnese, che l’Italia da quel tragico mattino di 45 anni fa e dopo quei drammatici 55 giorni non è stata più la stessa. Che fare allora, per passare dalla retorica alla riflessione seria su una vicenda che, è innegabile, ha segnato come un punto di non ritorno per tutti noi? Il primo passo è la memoria: «C’è come un buco nero. Non c’è stata la capacità di parlare ai nostri figli degli anni Settanta. Una storia drammatica che, evidentemente, non siamo stati in grado di elaborare». E naturalmente al centro di questa mancata elaborazione c’è proprio la vicenda di quei 55 giorni. «Trovo inspiegabile, molto strano, il modo con cui i cattolici, tanti cattolici, hanno affrontato questa vicenda». Il riferimento è, in particolare, alla centralità della persona che caratterizza la nostra Costituzione, per iniziativa di costituenti cattolici di cui proprio Moro è stato un capofila. «Trovo davvero strano che esponenti politici che hanno giocato la loro vita su questi valori si siano ritrovati a difendere in quell’occasione la centralità dello Stato a scapito della persona di mio padre, andando contro l’essenza stesa dell’impegno politico dei cattolici. Cosicché alla fine si è fatto troppo poco per liberarlo, meno di quello che era stato fatto per liberare il giudice Mario Sossi, e di quello che è stato fatto poi per l’assessore campano Ciro Cirillo, con il coinvolgimento addirittura della camorra». Elaborare il passato per non ripetere l’errore: «Ormai mio padre non c’è più, ma andare a fondo sarebbe ora necessario per evitare che di nuovo che, per andare dietro la propaganda, ci si volti dall’altra parte quando c’è in ballo la vita di una persona, che dovrebbe venire sempre al primo posto. Un po’ come accade oggi quando, per la retorica di difendere i nostri confini, ci voltiamo dall’altra parte se vediamo delle persone perdere la vita in mare davanti alle nostre coste». Quella che Agnese Moro intende trasferire, dalla testimonianza di quei giorni drammatici, è come una sensazione di «rassegnazione » a un copione già scritto, a un destino già segnato, un «arrendersi al male», che prese un po’ tutti. O forse no. «Viene il dubbio che nel Paese non ci fosse davvero tutto questo unanimismo nel non volere la trattativa. Scopro ancora oggi lettere di docenti, iniziative, prese di posizione di cui non ci fu traccia sui giornali». E per Agnese è forte il dubbio che in tutto questo abbia svolto un ruolo la loggia P2 infiltratasi in quel periodo in molti gangli vitali dello Stato e dell’informazione. Al centro di questa «azione di propaganda» ci fu la ben nota campagna volta a ritenere che le lettere di Moro non fossero riferibili a lui, o che non fosse “lui” a scriverle davvero, agendo sotto condizionamento psicologico o costrizione. Il professor Luciano Corradini, storico esponente dell’associazionismo cattolico bresciano, offre una testimonianza diretta del clima e delle convinzioni circolanti allora nel mondo accademico, volte ad accreditare proprio la tesi della non riferibilità a Moro di quelle missive. «Mi chiedo ancora perché non siano stati presi sul serio i tanti messaggi che con quelle lettere mio padre mandava, e si sia preferito non dare loro retta. Trattare, parlare è l’essenza della politica, anche quando ci sono in ballo interessi forti dello Stato. Se la politica dovesse discutere solo quando ci sono in ballo interessi di poco conto, allora sarebbe una cosa meno importante, come il bricolage». La moderatrice Annachiara Valle, di Famiglia Cristiana, ricorda che a sostenere le ragioni della “fermezza” si tirarono in ballo anche le vedove degli agenti della scorta che non avrebbero mai accettato, si disse, che per Moro si dovesse trattare: «Chi aveva negato loro le auto blindate che loro chiedevano attribuì agli uomini della scorta una cosa che mai avrebbero potuto pensare persone che avevano dato tutta la loro vita per proteggere quella di mio padre». Qualcosa però si muove. Non è più vero, per Agnese Moro che il ricordo di suo padre si ferma a quei 55 giorni. Ci sono in rete tutti i suoi scritti, da qualche anno, con l’Edizione nazionale delle sue opere: «E vedo tante iniziative, tanti scuole, tanti docenti e tanti giovani interessati a conoscere il suo pensiero. Ma quel che si vede poco, ancora, è la disponibilità a a impegnare la propria vita al servizio degli altri, come fece lui, in nome di quegli stessi princìpi».