domenica 7 maggio 2023
Il regista compie 75 anni e si racconta: dal sorprendente successo all'esordio nel 1979, il film muto "Ratataplan", agli incontri con il pubblico dei giovani, fino al prossimo film atteso nel 2024
Maurizio Nichetti, 75 anni

Maurizio Nichetti, 75 anni

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L’uomo ha il baffo ingrigito e il capello più corto ma l’occhialino tondo, lo sguardo curioso e l’aurea del fumetto sono gli stessi del regista e attore rivelazione apparso sul grande schermo alla fine degli anni ’70. Così come il «gioco di gambe» in perenne movimento è quello da «vero attore cinematografico», secondo il maestro Jacques Tati che nel ’79 a Parigi vide il suo sorprendente film d’esordio, Ratataplan, alla Sorbona. Ma poi sparì dall’aula magna e riapparì per invitarlo a prendere un tè. «Un tè con Tati », sorride Maurizio Nichetti, regista onirico, poetico, prosecutore, secondo un critico canadese stregato dal suo Luna e l’altra (penultimo lungometraggio, del 1996) del “neorealismo fantastico”, inaugurato dal cinema di Federico Fellini.

Ciondola spesso per la piazza sotto l’Avvenire il cineasta, assai indipendente, che ha stuzzicato la mia fantasia adolescenziale. È un nonno premuroso che tiene per mano i suoi nipoti, ai quali magari racconta che con il cinema lui ha realizzato il sogno impossibile per ogni uomo, Volere volare. Vola sempre alto il suo pensiero anche ora che osserva attentamente una società profondamente cambiata da quando la spiazzò con il film muto Ratataplan.

Un gioiello senza tempo (lo trovate su RaiPlay) che rimanda ai capolavori dell’amato Charlie Chaplin, avvistato ormai anziano in una serata d’onore alla Scala. «In un mondo globale dove tutti sono chini sui propri cellulari non c’è più nessuno che guarda i film di Chaplin» e di questo si rammarica Nichetti. «Se Chaplin fosse nato a Crescenzago nel 1953» come scrive nell’ultimo racconto surreale della sua Autobiografia involontaria (Bietti) «forse il genio comico non sarebbe riuscito a realizzare la Febbre dell’oro, nel 1989, a trentasei anni».

Se invece Nichetti fosse nato anche nel più remoto villaggio degli Stati Uniti, forse prima di Roberto Benigni e di Gabriele Salvatores, sarebbe potuto andare a ritirare l’Oscar. Sì perché nell’82 aveva già abbozzato quel Volere volare che se solo ci fosse stata una produzione in grado di scommettere sul progetto avveniristico avrebbe anticipato di ben sei anni l’uscita di Roger Rabbit. Il capolavoro di Robert Zemeckis, il primo film in cui il protagonista è un cartone animato che recita con attori in carne ed ossa. Ma non ha rimpianti Nichetti che domani compie 75 anni. Trequarti di secolo vissuti da artista a tutto tondo, disegnatore, soggettista, sceneggiatore, mimo, attore e regista uscito dalle barricate del ’68 «che per noi a Milano fu come per i partigiani la Resistenza ». Laureato in Architettura, ma primo vero impiego come ragazzo di bottega nella scuola magica di disegno animato di Bruno Bozzetto, in via Melchiorre Gioia. A un passo dalla Stazione Centrale, dove dopo l’apertura in Porta Romana, si trasferì quello straordinario laboratorio teatrale di Quellidigrock che lo stesso Nichetti ha fondato nel 1974. E là dentro, per cinque anni sperimentò «l’evoluzione del gesto comico dal circo al cinema muto».

E infatti il suo primo travolgente successo da regista è un incredibile film muto, Ratataplan: pellicola d’esordio uscita nelle sale nel ’79 e che è ormai è diventato un cult.
Anche questa mattina mi arriva un messaggio su Youtube. È un commento in inglese a una sigla di Ratataplan in cui chi mi scrive racconta che trent’anni fa era un bambino quando rimase folgorato dalla scena con il robot. L’ha cercata in tutti i film possibili e finalmente l’ha trovata: quel robot, è in Ratataplan e di questo sarà grato a vita al suo regista… Ecco, sono queste le cose che mi fanno ancora amare e comprendere il potere di fascinazione del cinema.

Ma allora perchè il suo ultimo lungometraggio, Honolulu Baby, è datato 2001? E Come ha trascorso questi anni senza stare dietro la macchina da presa?
Non ho fatto film ma ho girato altre cose e solo soggetti e storie che mi piacevano. Ho semplicemente preso le distanze dal cinema per un solo motivo. Il cambio dall’analogico al digitale, che io avevo anticipato creando ai tempi una serie di effetti originali, nel momento in cui mi sono accorto che tutti con un pc potevano rifarli, anche in maniera dilettantesca, mi ha fatto prendere altre direzioni. Quando poi tanti si sono buttati sui supereroi e quelle storie fantastiche seriali, che per uno che è vissuto di cartoni Volere volare lo dimostra… Ora comunque sto per tornare a girare e se riesco a finire entro l’anno, il mio 11° film uscirà nel 2024.

Per fare il 6°, Volere volare, ci vollero dieci anni (il film uscì nel 1990). Perché tanto tempo per capire che quello sarebbe stato un successo internazionale?Volere volare sono riuscito a farlo perché avevo vinto il Festival di Mosca con Ladri di saponette. Film che stupì quanto Ratataplan per il passaggio improvviso dei protagonisti catapultati dal colore al bianco e nero. Ladri di saponette venne venduto in tutto il mondo e quindi era una garanzia per il successivo che avrei girato ( Stefano Quantestorie). Ma la svolta epocale è stato Roger Rabbit. Andai a New York agli studi di postproduzione di Zemeckis per imparare a fare le “ombre”, perché era quello che mancava al mio cinema artigianale in cui usavo ancora le “mascherine” per farle. Nei loro studi trovai una macchina identica a quella che avevamo a Milano, così quando sono tornato ho detto: «su, adesso facciamo le ombre anche noi».

Volere volare colpì nel segno anche negli Stati Uniti.
Al Festival di Telluride lo proiettano alle 9 del mattino. Tra me e me penso, non verrà nessuno a quell’ora… Arrivo mezz’ora prima e vedo la coda all’ingresso. Il pubblico ride dall’inizio alla fine, segue dibattito di trequarti d’ora con un piglio critico inimmaginabile alle latitudini italiche dell’epoca. E alla domanda finale: «Mister Nichetti, farà un Volere volare 2? » rispondo, no, anche perché non mi pare che sia in programma un Roger Rabbit 2. Applausi scroscianti, inspiegabili, e standing ovation che mi accompagna all’uscita dove trovo 200 persone ad aspettarmi, al che stupito chiedo: ma scusate, siete venuti alle 9 a vedere un film italiano, mi avete chiesto di tutto e ora… Ma voi che mestiere fate? Risata generale, mi rispondono in coro: «Siamo i disegnatori di Roger Rabbit... ».

Successo di pubblico, di critica con encomio degli addetti ai lavori. Ma come mai non si aprirono le porte degli Studios americani?
A dire il vero in un giorno solo mi fissarono tre appuntamenti: con la società di Francis Ford Coppola, con quella di Steven Spielberg e la Disney. Coppola mi informai che stava fallendo finanziariamente e lasciai perdere. Spielberg era in Polonia che girava Schindler List e contemporaneamente Jurassic Park. Il suo agente mi disse: lei è di Milano, è vicino alla Polonia, vada che Steven la vede volentieri. Ma io di andare a bussare a Spielberg mentre faceva un film sulla Shoah non me la sono sentita. La Disney mi inviò un contratto americano in cui vendevo il soggetto e loro non erano obbligati a farmi fare la regia, e allora risposi grazie, il film me lo faccio io. Forse ho sbagliato, però magari se avessi accettato di lavorare in America oggi non saremmo qui a parlare. E la mia storia cinematografica dice che io preferivo stare proprio qui, in questo angolo di Milano, con la mia famiglia e i miei affetti più cari... Ho sempre fatto delle commedie a basso costo, senza mai aspettarmi un ritorno di blasone intellettuale ma sperando che in sala si divertissero tutti, dal bambino fino all’uomo impegnato.

I riscontri più forti da parte di questa platea allargata?
Ovunque. Prima della pandemia mi invitano in India a far parte della giuria del Festival di Pune. A ogni regista giurato chiedono di mostrare un suo film a un pubblico di studenti e io scelgo Ratataplan che essendo muto, penso, può facilitare la comprensione. All’auditorium si presentano 800 ragazzi che hanno riso per tutta la durata del film confermandomi che Ratataplan è trasversale ad ogni tipo di cultura, ma soprattutto che la comicità ha un suo linguaggio che è da sempre universale.

Comicità che da noi forse ha appreso da un maestro come Mario Monicelli, il quale lo volle protagonista in Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno.
Monicelli è stato fondamentale nel mio percorso, perché è la prima persona di cinema che ho conosciuto a Roma. Tramite Lou Castel gli feci avere una sceneggiatura per un film comico in cui il protagonista doveva essere proprio Castel che con Monicelli stava girando Caro Michele. Ma i due litigano e la mia sceneggiatura resta al regista, al quale timidamente telefono per riaverla. Parto da Milano e vado a Roma per farmela ridare. Lui burbero me la restituisce e mi chiede: « E adesso che ci fai?». Io smarrito gli rispondo, torno a Milano e la butto via… Monicelli dalla mia faccia comprende di trovarsi davanti a un tipo molto strano e mi dice di contattare Age e Scarpelli e la loro cooperativa nata per aiutare i giovani autori. Non se ne fece niente, ma fu un onore anni dopo ritrovarmi sul suo set nei panni di Bertoldino e recitare assieme a quel grandissimo attore che è stato Ugo Tognazzi, con cui era bello andare a cena e parlare di tutto, tranne che di cinema. Ma anche questo fa parte del grande potere del cinema.

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