Una scultura all'esterno del Museo Olimpico di Losanna - Daniele Zappalà
È un po’ come per Babbo Natale, in fondo. Se non avesse un domicilio, con giardino e vista sul lago, rischieremmo forse un giorno di cedere all’idea che il movimento olimpico è stato solo un grande e bel sogno in mezzo alle tempeste della storia. O comunque, non più di una serie di parentesi ludiche per distrarsi, rispetto all’atavica crudezza di un mondo pronto sempre a ritrovarsi in conflitto.
Ma i 5 cerchi hanno un vero domicilio. Nel cuore dell’Europa e in più aperto a tutti. A cominciare da chiunque abbia voglia d’interrogarsi seriamente, fra i venti di guerra tornati in Europa e mai scomparsi altrove, sul potenziale ancora inespresso dell’intuizione del barone francese Pierre de Coubertin, tanto ispirato, a fine Ottocento, da un grande sacerdote amico, il domenicano Henri Didon.
Come pochi altri luoghi, il Museo Olimpico, a Losanna, sulle sponde placide del Lago Lemano, rispetta la vocazione originaria delle istituzioni museali: dare un tetto a quanto, altrimenti, solo fra i soffi intangibili d’ispirazioni e aneliti, potrebbe finire la propria corsa in un angolo sospeso fra realtà e sogno.
All’ingresso, anche per il piacere dei piccoli, uno spezzone di pista d’atletica ricorda che i Giochi, ben prima che un business miliardario o una vetrina per le ambizioni degli Stati organizzatori, restano una faccenda spiccia di gambe, fiato, sudore e voglia di correre, saltare, lanciare.
Non a caso, le Olimpiadi decoubertiniane hanno spiccato il volo come trait d’union con quanto l’umanità sapeva già fare ben prima delle svolte tecniche e tecnologiche a noi più vicine. All’insegna del sudore, da praticanti ordinari della corsa o dell’uscita in bici domenicale, possiamo ancora sentirci vicini a quegli atleti antichi rievocati a Losanna soprattutto in una grande sala preliminare, piena di reperti archeologici che narranno i riti sportivi soprattutto nella civiltà greca, anche grazie a delle efficaci ricostituzioni filmate.
Ben presto, si giunge all’area dedicata al baffuto barone francese, che era di predilezione uno spadaccino e un cavaliere, come dà a vedere una grande tela in cui, già canuto ma ancora pronto e asciutto, impugna il fioretto con la destra, tenendo con l’altra le briglie di un sauro imbizzarrito. Spetta però a Didon la paternità del motto olimpico Citius, Altius, Fortius, come ricorda il museo: «Nel 1891, Pierre de Coubertin assiste a delle competizioni organizzate dal suo amico, il domenicano Henri Didon, al collège Albert-le-Grand. Promotore dello sport scolastico, il religioso è uno dei grandi pedagoghi del suo secolo. Nel suo discorso che chiude la manifestazione, pronuncia le tre parole latine citius (più veloce), altius (più in alto), fortius (più forte). La prima evoca lo spirito e gli studi; la seconda riguarda l’elevazione dell’anima; la terza è legata al corpo modellato dallo sport. Colpito dalla concisione dell’espressione, Pierre de Coubertin la tiene a mente per farne il motto olimpico fin dal 1894. Secondo lui, corrispondeva bene alle discipline atletiche e all’idea di strumento pedagogico che aveva dello sport». Fin dalle origini, anche un’epopea spirituale sono state dunque le Olimpiadi. Nel 2021, al motto originario è stata aggiunta la parola Communiter (insieme), per «mettere l’accento sulla solidarietà», come ha spiegato il tedesco Thomas Bach, presidente del Comitato olimpico internazionale (Cio), di cui il museo a Losanna è pure una sorta di vetrina.
L'ingreso del Museo Olimpico di Losanna - Daniele Zappalà
Lungo il percorso espositivo è possibile soffermarsi sulle riproduzioni delle prime lettere manoscritte in cui Pierre de Coubertin disegnò e colorò di proprio pugno i 5 cerchi destinati a divenire un simbolo inconfondibile. Per la prima volta, curiosamente, furono mostrati in pubblico ad Alessandria d’Egitto nel 1914, per l’inaugurazione di uno stadio, cuciti in uno stendardo in mostra al museo di Losanna. Un primato storico che oggi suona nondimeno un po’ come una beffa, essendo l’Africa ormai l’unico continente a non aver mai accolto l’evento: una delle “pecche” più vistose regolarmente rimproverate al Cio.
Fra cronologie interattive e schermi dedicati a tutte le edizioni, oltre a filmati sul rituale d’accensione della fiamma a Olimpia (Grecia), si giunge alla carrellata stupefacente di tutte le torce utilizzate lungo la storia dei Giochi moderni, come quella anticheggiante di Roma 1960, o quella tricolore e avveniristica di Sydney 2000, che ricorda nella forma il tetto del celebre Teatro dell’Opera simbolo della città. Non meno sorprendente, per rintracciare l’evoluzione di stili e gusti, è la collezione di tutti i tipi di medaglie consegnate agli atleti sul podio. Come in una caverna di Ali Babà, poi, la galleria si colora presto pure di tutti gli altri simboli fantasmagorici di ogni edizione e disciplina: le mascotte che hanno lasciato il segno, gli abiti e accessori più sorprendenti di memorabili cerimonie d’apertura, i souvenir e gli attrezzi del mestiere di atleti di epoche diverse: scarpe, racchette, caschi, sci e così via. Persino una telecamera della Rai risalente a Roma 1960, la prima edizione in mondovisione.
Il cuore della visita è l’antro ovoidale in cui scorre un montaggio d’immagini che cerca di riassumere il succo in comune fra ogni sportivo in azione: la grinta, le smorfie di sforzo, le impennate d’entusiasmo o delusione, l’affiatamento di squadra, la solitudine degli allenamenti verso un obiettivo che rischia sempre di restare un miraggio.
Nella sezione sullo “spirito olimpico” è messa in valore una delle più nobili e meno note tradizioni dei Giochi: il Muro della Tregua, su cui ogni atleta può lasciare traccia del proprio sostegno all’ideale olimpico di pace. A Losanna, in proposito, si può ammirare il muro trasparente dell’edizione di Londra 2012. Al termine del percorso, inoltre, una “ciliegina”: la possibilità di prendere in mano la torcia di Parigi 2024 dall’inedita forma affusolata.
Fra le missioni meno note del Museo Olimpico, vi è la caccia ai reperti emblematici delle edizioni passate e in corso, che non termina mai e alimenta pure il “caveau dei tesori”, al quale abbiamo avuto accesso, nei sotterranei preclusi al pubblico e protetti da diverse barriere di sicurezza. Qui scopriamo, fra l’altro, le scarpe in cuoio portate dall’americano John Coard Taylor un secolo fa, a Parigi 1924, nella finale leggendaria dei 400 (vinta da Eric Liddell). Proprio quella mostrata in Momenti di Gloria, del britannico Hugh Hudson (1981), la pellicola da Oscar per eccellenza sullo spirito olimpico.
Attorno al museo, nel vasto parco alberato con vista suggestiva sul Lemano, colpisce la collezione variegata di grandi sculture d’autore giunte da ogni continente per celebrare l’ideale e la tregua olimpici, così come le principali discipline. Una passeggiata che può pure rafforzare una convinzione: se sono riusciti a destare montagne di passione a ogni latitudine, qualcosa d’universale profuma davvero fra i 5 cerchi usciti dalla matita di un barone baffuto ispirato da un prete visionario.
La Galleria delle Torce olimpiche al Museo Olimpico di Losanna - Daniele Zappalà