«Sono andato a Palazzo Marino a riportare al sindaco Pisapia la medaglia d’oro del Comune di Milano, che mi diede anni fa l’ex sindaco Aldo Aniasi, ma non l’ho trovato. Adesso preparo un bel pacco e glie la mando. Tanto a che serve quella medaglia se ora che sei vecchio, stanco e bisognoso, non solo non ti onorano, ma non si ricordano neppure più di te?». È l’urlo disperato dell’attore mattatore della vecchia Milano, Piero Mazzarella. «Vado per gli 85 anni e posso vantare 242 commedie in carriera che tengo tutte qui a memoria – indica battendosi la testa –. Come me nessuno nel teatro italiano. Un attore veneziano dell’800 mi pare che ne abbia recitate la metà rispetto al sottoscritto, figlio di attori: Saro Mazzarella di Bagheria e mia madre Maria, milanese e attrice nella compagnia di Edoardo Ferravilla, l’inventore del mio
Tecoppa». Orgoglio e dignità sicula-meneghina che si mescola al suo “grido”, lanciato con un filo di voce arrugginita dal tempo e dagli acciacchi dell’età: «Soffro di diabete e di bronchite cronica. La notte per dormire mi aiuto con quella là», dice mostrando la bombola dell’ossigeno che sta in un angolo della camera nella sua casa, a Milano 2, dove siamo andati a trovarlo. Un appartamento in cui vive con la moglie Barbara – ex ballerina della Scala – con Piero jr e Paolo (due dei suoi cinque figli) e che leggenda popolare vuole sia stato un dono di Silvio Berlusconi, per il grande lavoro prestato da Mazzarella agli inizi della scalata mediatica del Cavaliere.«Ma quale dono del Cavaliere? Io qui sono in affitto da sempre e ho debiti per 17-18mila euro che non riesco più pagare da quando non posso più lavorare. Sopravvivo con la mia pensione di lavoratore dello spettacolo e la Bacchelli promessa me la daranno da morto – si ferma e riprende il respiro – . Berlusconi è vero, è stato molto generoso con me quando lavoravo nella sua prima tv, a Tele Milano58, quella che poi è diventata Canale 5. Ma io penso anche di aver ricambiato. In pratica gli tenevo in piedi tutto il palinsesto giornaliero. Cominciavo al mattino alle 9 con una trasmissione che si chiamava
A Milan se dis inscì, al pomeriggio proseguivo con il
Tecoppa a puntate e alla sera in pratica facevo il primo Costanzo Show ospitando attori e personaggi che erano di passaggio a Milano… – si ferma, riprende fiato e riattacca –. E poi in quegli anni ho fatto scuola a tanti divi di adesso. Ho tenuto a “battesimo” Paola Perego, Susanna Messaggio e Simona Ventura che aveva la mania del canto e glie la tolsi subito... Però la Ventura si sapeva già muovere bene davanti alle telecamere e poi si è visto con la strada che ha fatto». Ha fatto un lungo cammino anche Mazzarella, partendo dal teatro dialettale. Quel milanese scritto e parlato dal suo grande mentore, il poeta Delio Tessa del quale ama ripetere la massima che ha ispirato tutto il suo percorso artistico: «Al mondo io conosco solo un maestro: il popolo che parla». L’unico maestro teatrale al quale è devoto rimane Giorgio Strehler. «Mi ha diretto in
El nost Milan, primi anni ’60 . Eravamo amici e ci siamo scritti fino alla fine dei suoi giorni. E la fine è stata molto triste e immeritata per un genio come Giorgio…», dice mentre apre un cassetto e mostra un mazzo di lettere legate da un nastro, a firma del regista e fondatore del Piccolo Teatro. Strehler non è l’unico genio che si è parato nel suo cammino. «Ho avuto la fortuna di lavorare con tutti i più grandi del ’900, del teatro e anche del cinema per cui ho fatto una quarantina di film. Il più importante è stato
Il maestro di Vigevano, alla regia un altro genio, Elio Petri. Fu un onore per me recitare in quel film con Alberto Sordi, il più grande di tutti, con Totò e Aldo Fabrizi… Federico Fellini mi aveva già preso per
Amarcord, ma non me la sentivo di lasciare la mia Compagnia dello Stabile Milanese. Voleva dire chiudere il teatro per 8 mesi e gettare nella fame decine di attori, ballerine e maestranze, così a malincuore dissi di no. Però Fellini mi stimava e mi voleva molto bene. Quando con sua moglie Giulietta Masina recitai nello sceneggiato della Rai
Eleonora, Federico alla sera gli telefonava raccomandandosi: "Giulietta, stai con Piero che lui è un galantuomo"…». Si commuove sfogliando l’album dei ricordi che affiorano anche alle pareti di una camera che è diventata il camerino dell’attore. Mura ricoperte di foto di scena e quelle «più care con i papi Paolo VI e Giovanni XXIII». E poi, la caricatura di Max Tratti e le locandine storiche di commedie andate in scena dagli anni ’50 fino all’ultimo
Ciao Tecoppa: lo spettacolo d’addio al suo personaggio più amato, nel 2001. Da allora pochi scampoli di gloria per Mazzarella, sempre meno profeta in patria e celato sotto una filtra coltre di quella “scighera” di irriconoscenza che ha ricoperto le opere di un passato luminoso che però ai francesi non è sfuggito. «Per il bicentenario della nascita di Victor Hugo mi mandarono a chiamare da Parigi, memori di una frase di Mario Soldati che disse: “Piero Mazzarella è il più grande attore teatrale italiano, l’unico che potrà recitare anche nel Duemila…”. Io arrivo all’Eliseo e un portaborse del primo ministro mi chiese se avessi letto qualcosa in italiano o in milanese. Lo gelo, quando gli dico che avrei recitato in francese la poesia di Hugo
Al lavoro (attacca con memoria di ferro
Au travail…). Alla fine, venti minuti di applausi. E quel portaborse del ministro che si nascondeva per la vergogna…». Lampi d’orgoglio negli occhi dell’attore che richiude la sua valigia dei ricordi e apre il cuore del buon cristiano che non ha mai smesso di pregare. «Mi rivolgo a Gesù tutti i giorni e gli chiedo di darmi la salute e di farmi tornare a recitare, perché solo così posso andare avanti e mantenere la mia famiglia». Da ieri sera - e per i prossimi due lunedì di dicembre al Teatro Out Off di Milano - , Mazzarella torna in scena con
Mi e lu semm in duu per raccontare ancora la sua storia di teatrante e quella della sua città, in un «dialogo aperto» con Renato Dibì. «Una parte dello spettacolo si chiama
Milano dove vai?. Una domanda alla quale io, ma forse nessun milanese, sa più rispondere. Questa città, che amo con tutto me stesso, è cambiata ed è peggiorata tanto, come il teatro, come questo Paese. I giovani attori di oggi, al massimo sono degli imitatori e all’orizzonte non vedo nuovi Walter Chiari, Giorgio Strehler, Gino Bramieri, Giorgio Gaber, Enzo Jannacci … Tanto per citare alcuni degli artisti che con la loro anima hanno lasciato un’impronta sulla mia Milano che non può essere quella di adesso: una città che vive di fretta e che altrettanto in fretta si dimentica persino dei suoi figli più cari».