La prudenza di Enrico Letta al Quirinale sulla nascita di un governo è il segnale che il premier incaricato sa bene quello che lo attende nello studio del quinto piano a Montecitorio. Berlusconi è ancora in America, ma le richieste piovono sulla scrivania di Letta e subito vengono cassate dai suoi compagni di partito. La lista del Pdl è già pronta: al centrodestra l’Interno con Schifani, la Giustizia e le Comunicazioni. I capigruppo pd sono sconcertati: nel partito ancora si discute sulla natura e la durata dell’esecutivo e si rischia la scissione, si ragiona. Pretese così non possono essere accettate in casa democratica. La tensione sale e le linee telefoniche si intasano, tra scenate e accuse. Il Pd non intende cedere al Cavaliere «le poltrone chiave per le sue battaglia personali».Perché non c’è «niente di scontato» a largo del Nazareno, dove i "giovani turchi" sono pronti a mollare Letta, in caso di un governo politico con personalità di spicco del Pdl, fino anche ad uscire. Lo sanno bene i rappresentanti della vecchia guardia. Il voto di fiducia rappresenta l’occasione per la vera resa dei conti. Una prospettiva perfino auspicata da chi non riesce ancora a digerire i franchi tiratori che hanno impallinato Marini e Prodi e vorrebbe vedere il trasloco verso Sel dei rappresentanti più a sinistra. Ancora una volta in Direzione non escono allo scoperto, ma il pericolo di ripercorrere scene già vissute mette preoccupazione al premier incaricato Enrico Letta, stretto tra i due veti contrapposti.E allora nel Pd partono le diplomazie, con Dario Franceschini e Beppe Fioroni che incontrano uno a uno i parlamentari democratici. Voci in dissenso sono già emerse, ma questa volta la linea non potrà essere diversa, ripete il capogruppo a Montecitorio Roberto Speranza. «L’incarico a Enrico Letta consegna al Partito democratico una grande responsabilità». E «il Pd sosterrà convintamente» il tentativo lettiano. Quanto meno, chi non è d’accordo al momento del voto si deve «assumere le responsabilità delle conseguenze catastrofiche», dice Fioroni. Di certo «non esiste in natura un partito con un pezzo al governo e un pezzo all’opposizione», concorda Giorgio Tonini, convinto che «almeno al Senato» il gruppo reggerà. Ma sono in molti che a denti stretti attendono il voto di fiducia come banco di prova per la tenuta del partito. «Il 4 maggio, all’Assemblea (che dopo le dimissioni di Bersani deve trovare una reggenza fino al Congressondr) i giochi saranno stati già fatti», dicono. Ma sarà un bene «uscire dalle ambiguità».Il punto resta che in Direzione ci si esprime in un modo e poi le dichiarazioni fanno pensare ad altro, concordano i renziani. «Il Pd in Direzione è stato molto chiaro e ha dato un mandato pieno alla soluzione scelta dal presidente Napolitano», commenta Graziano Delrio, che chiede ora al partito di «essere coerente».In casa Pdl, però, la situazione è uguale e contraria. I falchi gridano e le colombe mediano. Gianni Letta cerca di ammorbidire le posizioni, ma il segretario Alfano e i suoi non intendono cedere su un esecutivo tecnico (o con personalità esperte di area), né sulla scadenza a termine dell’esecutivo. Ma la parola finale la dirà soltanto Silvio Berlusconi, oggi, quando rientrerà dagli Usa.