Un impegno in prima persona su un tema centrale ancora oggi: quello del debito che grava sui paesi poveri e che impedisce di fatto a quelle economie di decollare. Carlo Azeglio Ciampi prima di diventare presidente della Repubblica ha ricoperto oltre al ruolo di premier nell'immmediato dopo-Tangentopoli, quello di ministro dei governi Prodi e D'Alema. In quest'intervista, dell'aprile 1999, l'ultima concessa a un giornale prima di diventare presidente, spiega in cosa consisteva il programma di aiuti varato da Usa e Europa e il significato profondo di questa operazione, legato all'imminente Giubileo. "Non potevamo non tenere conto dell'insopportabile e ingiustificato peso della povertà che, alle soglie del 2000, grava ancora su oltre 2 miliardi di persone. Il Giubileo rappresenta in questo senso un'occasione straordinaria per cercare di cambiare la situazione" dice Ciampi.
da Avvenire del 25 aprile 1999
WASHINGTON. «Un taglio alla zavorra dei debiti che trascina verso il fondo i Paesi più poveri. Una svolta perché il Giubileo e il nuovo millennio possano innescare la rinascita di intere nazioni». Carlo Azeglio Ciampi è a Washington per i meeting di primavera di Fondo monetario internazionale e Banca mondiale, nella sua doppia veste di ministro del Tesoro italiano e soprattutto di presidente del Comitato interinale, l'organo di governo del Fmi. E anticipa così ad Avvenire le linee guida del progetto delle due istituzioni per l'abbattimento del debito estero dei Paesi in via di sviluppo. Un piano al quale «l'Italia darà un contributo particolare, incisivo, sia nell'ideazione sia in termini finanziari». Non solo. Il nostro Paese è pronto a cancellare completamente oltre 2.800 miliardi di lire di crediti bilaterali. Un atto specifico dell'Italia, una netta cesura rispetto al passato recente, nel quale proprio il nostro Paese, assieme a Germania e Giappone, si era mostrato restio, nel concedere ulteriori tagli al debito dei Paesi poveri. Ma, prima di indagare la filosofia sottesa agli interventi, vediamo le iniziative concrete. Il Fondo monetario è impegnato da mesi, assieme alla Banca mondiale, nella riprogettazione del programma Hipc (High indebitated poor countries, i Paesi poveri maggiormente indebitati), lanciato nel 1996. Esso riguarda 40 Paesi, in particolare dell'Africa Subsahariana, e ha come obiettivo quello di rendere «sostenibile l'onere del servizio del debito estero». In sostanza significa ridurre il peso del debito stesso, affinché il pagamento degli interessi e delle rate di capitale di tali prestiti non assorba così tante risorse da rendere impossibile la sopravvivenza stessa di intere nazioni. Basti pensare (si veda la tabella) che in molti Paesi il solo debito estero rappresenta il doppio della ricchezza prodotta in un anno (per Sao Tomé addirittura il triplo) e che il debito complessivo dei Paesi più poveri ammonta a qualcosa come 200 miliardi di dollari (circa 360mila miliardi di lire). In una tale situazione, qualsiasi tentativo di sviluppo è bloccato sul nascere dal peso dei soli interessi sul debito. Di qui l'iniziativa partita due anni e mezzo fa con una dotazione di 16 miliardi di dollari. Dopo un lungo monitoraggio, sono stati individuati come «eleggibili» - cioé ammissibili agli aiuti - dieci Paesi: Uganda, Bolivia, Burkina Faso, Guinea Bissau, Costa d'Avorio, Guyana, Mali, Mozambico, Etiopia e Mauritania. Ma solo in due casi - per Uganda e Bolivia - sono stati effettivamente stanziati i fondi per l'abbattimento dell'80% del debito estero. Un risultato troppo limitato per essere soddisfacente. Oggi, però, sotto la spinta degli appelli del Papa, delle Chiese cristiane e di molte organizzazioni umanitarie, potremmo essere alla vigilia di una svolta. Il programma Hipc, infatti, dovrebbe essere rivisto nelle sue procedure e rifinanziato con circa 70 miliardi di dollari, attraverso la vendita di parte delle riserve auree del Fondo monetario. Ministro Ciampi, quale sarà il ruolo dell'Italia e suo personale per queste iniziative? Siamo fortemente impegnati a migliorare il programma di interventi. E, per testimoniarlo subito con le cifre, il nostro Paese sosterrà il programma Esaf (Extended structural adjustment fund, fondo per gli aggiustamenti strutturali) del Fondo monetario internazionale con un prestito di 250 milioni di Dsp (i diritti speciali di prelievo, l'unità di conto del Fmi), pari a circa 615 miliardi di lire e un contributo a fondo perduto per l'abbattimento degli interessi di altri 40 milioni di Dsp, circa 100 miliardi di lire. Presso la Banca mondiale, poi, parteciperemo alla costituzione del fondo Hipc, secondo le modalità di ripartizione che saranno decise in seno al G7. Il programma Hipc, però, non ha dato i risultati sperati. Non crede sia necessario rivederne le procedure? Le iniziative messe in atto finora sono state positive. Ma è indubbio che occorre fare molto di più e meglio. Il programma ha funzionato bene perché costituisce un forte incentivo all'adozione di politiche virtuose, credo però debba essere in parte riorientato per favorire maggiormente i Paesi più poveri. Senza dubbio, poi, è necessario accorciare i tempi delle istruttorie. Anche se, non dimentichiamolo, ci troviamo ad operare con Paesi che non brillano certo per l'efficienza delle loro pubbliche amministrazioni. Le istituzioni internazionali devono andare incontro ai Paesi - è vero - ma anche da parte di questi ultimi occorre uno sforzo... È possibile anche un coinvolgimento dei privati? Non solo possibile, ma auspicabile. Sono fermamente convinto che vadano coinvolti il più possibile. In questa iniziativa, come nell'altra che discuterò al comitato interinale, per la costituzione di un fondo d'emergenza presso il Fmi, al quale accedere in tempi ristrettissimi nel caso di crisi finanziarie. Eppure finora l'Italia aveva sempre "frenato" sulle iniziative straordinarie di riduzione del debito. In passato ci fu anche una polemica con i nostri missionari, a causa di crediti verso Paesi in via di sviluppo, ceduti ad enti commerciali privati. Perché ora si cambia posizione? Non potevamo non tenere conto dell'insopportabile e ingiustificato peso della povertà che, alle soglie del 2000, grava ancora su oltre 2 miliardi di persone. Il Giubileo rappresenta in questo senso un'occasione straordinaria per cercare di cambiare la situazione. Ma attenzione, queste iniziative vanno inquadrate in un'azione di lungo periodo. Guai se prevalesse la sensazione, nei Paesi in via di sviluppo, che prima o poi c'è sempre una sanatoria sui debiti accumulati. Quella che verrà decisa non va considerata un'elemosina da elargire ora e magari anche in futuro. È l'occasione una tantum - straordinaria appunto - per far ripartire lo sviluppo nei Paesi più poveri. Sul piano tecnico, cosa proporrà in specifico? Di migliorare il programma Hipc procedendo alla totale cancellazione dei cosiddetti «crediti d'aiuto» e portando il livello di cancellazione del debito commerciale al 90%. Stiamo valutando, poi, l'ipotesi di cancellazione totale, al 100%, di tutti i crediti d'aiuto e commerciali vantati nei confronti di quelle nazioni il cui reddito pro-capite non supera il livello di 1 dollaro al giorno. Quali contropartite, quali condizioni, chiederà il Fondo ai Paesi poveri? La presentazione di progetti di sviluppo concreti e credibili. Questi Paesi dovranno aumentare la spesa sociale e astenersi dalle spese «improduttive». Per nazioni quali Mozambico, Etiopia, Ruanda, Burundi, Somalia e Sudan vi sarà anche un'esplicita richiesta di rinuncia ai conflitti bellici e di impegno per il rispetto dei diritti umani. L'Italia cancellerà una parte dei crediti bilaterali che vanta nei confronti dei Paesi in via di sviluppo? In accordo con la presidenza del Consiglio, abbiamo deciso un intervento straordinario che coinvolgerà i Paesi già menzionati per un ammontare complessivo di oltre 2.800 miliardi di lire. Cancelleremo infatti circa 2.100 miliardi di crediti all'esportazione e altri 725 miliardi di crediti di aiuto, stanziati nell'ambito della cooperazione allo sviluppo. E questi 2.800 miliardi peseranno sul bilancio italiano di quest'anno? L'operazione non è certo gratuita. Ma il peso sarà sopportabile, perché per la maggior parte si tratta di crediti assai difficilmente esigibili e di poste per le quali è già previsto un periodo molto lungo (fino a 40 anni) per il rimborso. L'onere relativo al mancato rientro dei fondi per la Sace (l'assicurazione all'export, ndr) sarà dunque spalmato su più esercizi di bilancio.