Le guerre del Medio Oriente e l’instabilità nel Maghreb e in Africa stanno facendo la fortuna dei produttori di tutto il mondo. E l’Italia non sta a guardare. Stando all’elaborazione di Giorgio Beretta, dell’Osservatorio permanente sulle armi (Opal), dal 1990 ad oggi le principali autorizzazioni all’export di armamenti “Made in Italy” sono suddivise per aree geopolitiche: Unione Europea (35,9% del totale), Medio Oriente - Nord Africa (23,2%) e Asia (15,4%). Il quadro sensibilmente cambia nel quinquennio 2010-2014. Scendono le autorizzazioni verso Paesi Ue (24,5%) e aumentano quelle dirette in Medio Oriente e Nord Africa, (35,5%). Al primo posto, da quanto è possibile apprendere dalle fonti pubbliche, vi è l’Algeria (1,4 miliardi di euro), seguita a da Arabia Saudita (1,2 miliardi di euro), dagli Usa e dagli Emirati Arabi Uniti. Lo Stockholm international peace research institute (Sipri) in uno studio basato sui dati delle sole esportazioni legali, dunque autorizzate dai governi, dimostra che il mercato globale dei “sistemi di difesa” sta conoscendo una nuova stagione dell’oro: +16%. Non c’è altro comparto economico che riesce a fare meglio. Lo conferma la cronaca delle ultime settimane. Il 23 ottobre si è appreso che alcuni carri armati di fabbricazione tedesca sono stati esportati in Qatar. Non è stata la prima volta, non sarà l’ultima. Sei giorni dopo si è scoperto che l’azienda “Heckler & Koch” ha denunciato il governo di Berlino per non aver fornito l’autorizzazione all’invio di componenti del fucile G36 all’Arabia Saudita, che da alcuni anni può costruire mitra d’assalto G36 su licenza tedesca, ma per assemblarli necessita di componenti che sono fabbricati in Germania. Qatar e Arabia Saudita sono i Paesi che con gli Emirati Arabi Uniti stanno bombardando nello Yemen il movimento ribelle sciita Houthi, vicino a Teheran. Le migliaia di vittime civili (si parla di almeno 4mila solo nello Yemen) vengono derubricate a «effetti collaterali». Incidenti di percorso compensati da munifici contratti. Il ministro dell’Economia tedesco Sigmar Gabriel aveva annunciato di voler ridurre le autorizzazioni per esportazioni di armi leggere, ma evidentemente medesima prudenza non riguarda i panzer e le micidiali bombe aria-terra. I bombardieri arabi, infatti, possono contare su cospicui rifornimenti di ordigni prodotti, come documentato da
Avvenire nei giorni scorsi, nello stabilimento italiano della multinazionale tedesca “Rwm”. Di pari passo crescono i traffici illeciti. Solo pochi giorni fa si è scoperto, per stare solo alle più recenti notizie di casa nostra, che un carico di bombe da Cagliari era destinato a una base militare degli Emirati e che uno di munizioni e carabine è stato bloccato nel porto di Genova. Erano destinate a non meglio precisati importatori in Libia, Paese che non può ricevere neanche un petardo a causa dell’embargo che non è mai stato cancellato. Nel container, intercettato a luglio, fra palloni da calcio e bambole c’erano 170 carabine di precisione e 200mila pallini. Armi sofisticate di produzione tedesca stivate in fondo al contenitore di giocattoli destinato al porto di Misurata. I fucili erano catalogati come “giocattolo”. In realtà vantano una potenza di fuoco superiore di tre volte a quella consentita per il tiro sportivo: un pallino può uccidere un uomo fino a cento metri di distanza, risultando adatto agli scontri ravvicinati in ambiente urbano. La spedizione, in un modo o nell’altro, coinvolge la coalizione saudita, interessata anche a un proprio ruolo nella difficile transizione libica e sospettata di avere armato gruppi ribelli che si sono uniti all’Is. Le bolle d’accompagnamento dei balocchi mortali erano state preparate da spedizionieri degli Emirati Arabi rimasti nell’ombra e che gli investigatori italiani non riescono a individuare, anche per la scarsa collaborazione delle autorità di Abu Dhabi. A insospettire gli inquirenti era stato il cambio dei documenti di viaggio del bastimento, prima destinato in Turchia e poi a Misurata. Sempre nello scalo genovese a giugno erano stati bloccati 3mila teaser destinate al porto di Tripoli. Si tratta di pistole che rilasciano scariche elettriche in grado di immobilizzare una persona e che in diversi Paesi vengono segnalate come strumenti di tortura. Neanche quelle, per via del divieto di esportazioni, possono essere recapitate in Libia. Ma i trafficanti evidentemente se ne infischiano.