Un modo di dire ricorrente afferma che quando l’edilizia va, tutto va. L’espressione non vale da incitamento ai palazzinari famelici o ai fautori della cementificazione a tutti i costi: l’edilizia va quando la risultante dell’installazione di un cantiere si traduce in una circonvallazione là dove il traffico è sempre paralizzato, in un raccordo autostradale che toglie dall’isolamento una provincia, in una ferrovia al servizio dei pendolari o del trasporto dei manufatti di un grande complesso industriale. In un’opera pubblica, in poche parole. Sono considerazioni elementari, ma ardue da recepire in tempi di contestazione serrata verso un’infrastruttura come la nuova linea del Fréjus, quando il no dei singoli, dei gruppi organizzati o dei corpi sociali tende a prevalere. È la considdetta sindrome Nimby, acronimo inglese che sta per Not in my back yard, non nel mio cortile: ciascuno in privato riconosce che un’autostrada è indispensabile, che un rigassificatore è utile, che una centrale elettrica serve, che un aeroporto va ampliato. Via libera alle ruspe, ma a una condizione: che i cantieri non vengano impiantati nei dintorni di casa propria, ma sul terreno altrui. Ben vengano i benefici, gli oneri li sopporti qualcun altro. Così un’Italia egoista, miope, opportunista, incapace di riflettere sulla propria realtà e sul proprio futuro arranca penosamente, perde terreno, invecchia. A 150 anni dall’unificazione il Paese fa i conti con una rete di strade statali, o ex statali, disegnata su un reticolo d’epoca romana, con ferrovie di progettazione ottocentesca e con un sistema autostradale ancora condizionato nella sua inadeguatezza dalle scelte operate durante la stagione politica della solidarietà nazionale, la grande ammucchiata di partiti fino al giorno prima tra loro inconciliabili. «Troppe autostrade, fermiamoci», si disse. Non si fermarono la Germania, il Regno Unito, la Francia che partiva praticamente da zero, la Spagna uscita dalle tenebre del franchismo, e poi i Paesi dell’Est dopo la lunga notte del comunismo e della pianificazione. Mentre da noi non si riesce più a spendere per infrastrutture e gli investimenti sono calati del 35 per cento in 20 anni, l’Europa già in corsia di sorpasso continua a crescere. Scende lo spread tra Btp italiani e titoli tedeschi, ma un altro spread si amplia a dismisura: quello tra il nostro sistema di trasporti e le reti continentali, una forbice che fa la sua parte per innescare la recessione che già morde, dato che trasporti efficienti, veloci, dimensionati sulle esigenze di una comunità o di una regione sono il motore di qualsivoglia sistema economico. Reti realizzate con attenzione e rispetto per il territorio, con il consenso informato dell’opinione pubblica e a costi ragionevoli, equi, non appesantiti da rinvii, ricorsi al Tar, revisioni dei capitolati (e spesso dall’onere delle mazzette, tassa occulta che tutti paghiamo) sono il paradigma del dinamismo di un Paese. Perché quando la cantieristica cammina, cresce l’occupazione, si creano posti di lavoro, si distribuisce denaro, cioè reddito che stima la domanda mettendo in movimento altri settori dell’economia. L’equazione «più opere pubbliche uguale più lavoro» non richiede dimostrazioni, non impone di scomodare Keynes e le sue teorie, tanto più che non si tratta di impiegare manodopera prima per scavare una buca e poi per farla riempire, giusto per non tenere inattivi i disoccupati. Costruire infrastrutture non faraoniche di rilevante utilità nazionale significa uscire per sempre dalla logica delle opere lasciate incompiute o terminate dopo decenni dalla posa della prima pietra e fare di un Paese per certi aspetti esso stesso incompiuto un Paese finalmente agganciato alla realtà del Duemila. Un’Italia ben «attrezzata» è l’eredità migliore che le generazioni di oggi possono trasmettere ai loro figli e nipoti. Il no a priori alle opere necessarie è, al contrario, la peggior manifestazione di egoismo nei confronti di chi verrà dopo di noi.