domenica 15 aprile 2012
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Ho un preciso ricordo personale di Nuto Revelli che, sul finire degli anni 80, mi diceva: «Fino a quando non si saprà la verità sulle stragi degli anni 70, l’Italia non potrà essere un Paese normale». E subito dopo aggiungeva: «Anche se non sarà una verità ricostruita con i processi, ci dovrà essere prima o poi uno storico che ci racconti quella storia». Me lo diceva con l’indignazione trattenuta e la pacata speranza, che doveva aver imparato dai suoi contadini, testimoni di quel 'Mondo dei vinti' che Revelli amava in modo struggente. E così, ieri, proprio le parole del grande scrittore mi sono tornate in mente, alla notizia della conferma, in appello, della assoluzione di Carlo Maria Maggi, Delfo Zorzi, Maurizio Tramonte e Francesco Delfino, per la strage di piazza della Loggia a Brescia del maggio 1974 e i successivi depistaggi. L’ultimo processo, e l’ultima assoluzione, per le stragi (piazza Fontana, treno Freccia del Sud, Peteano, Questura di Milano, piazza della Loggia, treno Italicus) di quel maledetto quinquennio che val dal 1969 al 1974.L’impotenza della verità processuale ha tanti colpevoli: il tradimento di molti uomini delle istituzioni, che quella verità hanno ostacolato sin dai primi momenti; la difficoltà di raccogliere testimonianze orali certe a distanza di decenni dai fatti; alcuni errori inescusabili commessi nelle prime ore delle indagini. Proprio ieri Manlio Milani (presidente dell’associazione dei familiari delle vittime di piazza della Loggia) ricordava il lavaggio della piazza, che impedì di ricostruire l’esplosivo usato e il detonatore utilizzato. «Ormai è una vicenda che va affidata alla storia, ancor più che alla giustizia», ha commentato, alla lettura della sentenza, uno dei rappresentanti dell’accusa, Roberto Di Martino: quasi a riecheggiare le sconfortate riflessioni di Nuto Revelli. Eppure – come ricordava Luigi Ferrarella sul 'Corriere della sera' in occasione del quarantennale della strage di piazza Fontana – «è immorale, prima ancora che falso nella ricostruzione storico-giudiziaria, coltivare il luogo comune di una verità ignota, di una strage senza paternità, di misteri totalmente mai diradati». Pur nell’impossibilità di giungere a condanne definitive, i processi hanno stabilito alcuni punti fermi (che proprio Ferrarella, come altri cronisti e commentatori, anche su queste colonne, ha più volte ricordato). Innanzitutto, la Cassazione, nel 2005, assolvendo per piazza Fontana i neofascisti Zorzi, Maggi e Rognoni, ha chiaramente scritto che Franco Freda e Giovanni Ventura, definitivamente assolti nel 1987, con le nuove prove, raccolte nelle inchieste successive allo 'scippo' del processo milanese del 1972, sarebbero invece stati condannati. In sostanza: le prove certe, a loro carico, sono emerse soltanto dopo la loro assoluzione irrevocabile; cioè quando il principio del ne bis in idem (da sempre vigente e ribadito nel nostro codice di procedura penale all’articolo 649) impediva ormai di sottoporli a un nuovo processo. Non solo: il neofascista Carlo Digilio ha confessato il proprio ruolo nella preparazione dell’attentato di piazza Fontana, ottenendo nel 2000, per questa confessione, le attenuanti generiche e la conseguente prescrizione. E ancora: l’ex generale del Sid, Gian Adelio Maletti (fuggito in Sudafrica nel 1980), e il capitano Antonio Labruna sono stati condannati definitivamente per il depistaggio delle indagini. Questi brandelli di verità storica, sopravvissuti alla strage della verità processuale, possono essere la solida base di un serio lavoro storiografico. Sui rapporti fra il mestiere di giudice e quello di storico sono state scritte, in un passato remoto ed anche prossimo, molte pagine: basti ricordare il saggio di Piero Calamandrei e le indimenticabili riflessioni del giurista Arturo Carlo Jemolo. La loro lezione ci fa dire, dopo la sentenza di ieri, che ora è il momento degli storici. Del loro lavoro il Paese ha oggi bisogno.
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