Un pomeriggio di fine dicembre in un bar dimesso, sulla circonvallazione di una città emiliana. Una fila di slot machines è occupata da quattro clienti. Gli ingranaggi girano rumorosi, a tratti si sente il rotolare di qualche moneta vinta. Poca roba. Subito sugli schermi tornano a scorrere velocemente i simboli che dovrebbero allinearsi uguali, e non si allineano mai. A un tavolo quattro vecchi sono intenti a una silenziosa partita a carte. Una di loro è una donna, il viso segnato dalle rughe è troppo truccato. Sembra una maschera drammatica, col suo sguardo intento solo a discernere il fante o il re da giocare. Accanto, due donne anziane, vestite modestamente, bevono qualcosa di forte - lo senti dall’odore. Ordinano un altro bicchiere. Tacciono, e guardano fuori, verso l’imbrunire. A un tratto una interrompe il silenzio: 'Fra pochi giorni è Capodanno', dice. E dopo un attimo: 'Devo ricordarmi, il 31 sera, di mettere le lenzuola nuove. M’han detto che porta fortuna»...
Nella solitudine del bar di periferia la frase stringe il cuore. Quale fortuna aspetta, signora? vorresti chiedere alla sconosciuta. Ma quasi con tenerezza; per il cocciuto, ostinato bisogno di sperare che rimane anche in chi, umanamente parlando, sembrerebbe ormai esserne escluso; dentro questo locale un po’ triste, dove la massima fortuna sta, forse, nascosta dietro un gratta e vinci.
Ma poi anche fuori di qui, dove la vita scorre più lieta e più giovane, dove abita la speranza della gente, in questo ultimo declinare del 2012 che finisce e si sporge sull’anno nuovo, intonso? Dovunque ti volti è un offrirsi di oroscopi, di stelle lette, si assicura, e decifrate. Sembra di sentire l’eco della voce del venditore di almanacchi di Leopardi: «Almanacchi, almanacchi, lunari! Almanacchi nuovi!». E molti di noi sono come quel cliente pensoso che chiede all’ambulante se sarà migliore davvero, l’anno nuovo, di quello passato, e osserva che comunque nessuno, nemmeno un principe, accetterebbe di rifare l’anno che ha avuto, conoscendolo già, tale e quale. E quindi conclude: «Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura». Parole che rendono bene la confusa, cieca, cocciuta speranza che circola fra gli uomini, una volta ancora, all’approssimarsi della cesura del 31 dicembre.
E fra noi che ci diciamo cristiani invece, cos’è la speranza, e perché, pur portando apparentemente un nome simile, non ha nulla della imperscrutabilità, della volubilità capricciosa del Caso, signore delle lotterie e degli oroscopi di fine anno?
La nostra speranza è Cristo, e non ha nulla di irragionevole, non è un favore di dèi pagani da propiziarsi con riti superstiziosi. La speranza nostra è «attender certo della gloria futura». È la certezza, oggi, di Cristo, signore del tempo e della storia, che conosce ogni uomo; e nel cui nome non esiste il Caso, ma solo un destino misterioso, ma buono. La speranza nostra emana dal respiro della fede, fede che, scrive Benedetto XVI nella “Spe salvi”, «Attira dentro il presente il futuro, così che quest’ultimo non è più il puro, “non-ancora”. Il fatto che questo futuro esista, cambia il presente ». Volendo dirlo ai nostri figli, è in fondo semplice: immaginate di camminare per un sentiero impervio, stanchi, e mentre si fa buio. Che differenza passa tra il non sapere dove si sta andando, o invece conoscere con certezza dove, e da chi si va, e che c’è una grande casa in cui siamo aspettati da sempre, uno per uno? La nostra speranza non ha nulla di aleatorio, nulla che stia in bilico sul salto del tempo che è il morire di un anno. Ma quanto, attorno, è larga la dimenticanza, e il ripiegare su povere fasulle speranze. «Le lenzuola nuove, m’han detto che portano fortuna», detto da una donna di ottant’anni: che solitudine, e che urgenza di dire il nome di Cristo; e prima ancora, di un abbraccio - ma forse è proprio questo, il primo annuncio.