Esattamente un anno fa, proprio su queste colonne, scrivevo che la solidarietà è la vera, autentica, grundnorm dell’Europa, ossia il principio fondante posto alla base del processo d’integrazione europea. Semmai ce ne fosse stato bisogno, gli ultimi dodici mesi hanno dimostrato che, oggi, abbiamo bisogno di più Europa, più forte e unita, e non viceversa. Molto è stato fatto, con il rafforzamento degli strumenti di coordinamento e di governance delle politiche economiche e di bilancio. Ma molto resta da fare, ora, con l’autunno alle porte, per riavviare un ciclo di ripresa e crescita economica, dove la priorità numero uno è l’occupazione. Per questo sto lavorando alla realizzazione di una nuova politica industriale, capace di promuovere l’innovazione e la re-industrializzazione sostenibile. L’Europa deve essere protagonista di una "nuova rivoluzione industriale", basata sull’efficienza energetica e sulle tecnologie verdi, fonti – come si è annotato su "Avvenire" di domenica scorsa – di nuove competenze e nuovi posti di lavoro. Grazie al fiscal compact e agli altri accordi conclusi nel primo semestre dell’anno, la nave è rimasta a galla. Tuttavia, alcuni forti squilibri economici e sociali tra gli Stati membri dell’Unione - già esistenti ben prima della crisi finanziaria - hanno finito per accentuarsi gravemente, nel corso degli ultimi quattro anni. L’effetto è stato che l’unico spread che si è allargato davvero a dismisura è stato quello tra coloro che prescrivevano il ricorso alle "terapie" dimagranti del rigore e coloro che, invece, hanno mantenuto una posizione di dialogo, volta al rafforzamento degli strumenti comuni, nell’intento di aiutare Paesi e intere popolazioni rimaste indietro e svantaggiate. Aiutare chi è in difficoltà assume il valore di scelta strategica: ne guadagnano tutti, anche coloro che, in teoria, si sentono forti e al riparo da ogni tempesta. Per evitare la disintegrazione dell’eurozona e, con essa, anche la disintegrazione di ogni fiducia residua dei cittadini verso la politica, l’unico percorso – pur se accidentato – è stato quello di trovare un giusto equilibrio tra rigore, solidarietà e crescita. Proviamo a immaginare, solo per un istante, cosa sarebbe stato della Grecia, della Spagna, dell’Italia e dell’Europa intera senza quella «casa comune» che, con infinita lungimiranza, fu concepita e costruita sulle macerie morali e materiali del secondo conflitto mondiale da De Gasperi, Adenauer e Schuman: un’intera generazione di statisti di formazione cristiano-democratica. Il pensiero e l’opera dei padri fondatori dell’Unione richiamano un altro tema, quello delle radici cristiane dell’Europa. Un punto, questo, sul quale mi sono speso sin dai tempi che sedevo al Parlamento europeo e che continuo a considerare essenziale, se vogliamo riportare al centro del dibattito quei valori che permettono ad ogni cittadino di riconoscersi in un’identità comune. Quando entra in una Chiesa lituana o portoghese, ognuno di noi, credente o non credente, si sente partecipe di una storia comune, tipicamente e profondamente europea. Come Vicepresidente della Commissione, ribadirò lunedì la centralità del ruolo dell’Europa in occasione dell’Incontro mondiale per la Pace organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio a Sarajevo, città simbolo dei conflitti dei Balcani degli anni Novanta. Proprio dalla capitale bosniaca crocevia di popoli, culture e religioni, il progetto europeo intende ripartire, guidando le Repubbliche sorte dalla disgregazione dell’ex Jugoslavia lungo il solco dell’integrazione europea. I Balcani hanno offerto la lezione più dolorosa e tragica. Si può essere divisi su molto o tutto. Si può rivendicare la propria autonomia e diversità. Si può lottare per i propri valori. Ma qualsiasi "balcanizzazione" cieca e violenta sfocia solo in odio, vittime, orrori e ondate di movimenti populisti e neo-nazionalisti. Abbiamo lavorato molto per la stabilizzazione dei Balcani che, con diversi livelli di progressi sulle rispettive tabelle di marcia concordate con l’Ue, si preparano alla loro associazione e integrazione con l’Europa. È questo il significato profondo dell’integrazione europea: è il più grande "cantiere" di democrazia e di inclusione sociale. Ma è un cantiere sempre aperto. Avviato 60 anni fa, ci ha regalato il più lungo periodo di pace e prosperità della storia. La buona politica ha il compito di puntellare e rafforzare questa «casa comune». Come recita il sottotitolo dell’Incontro per la Pace di Sarajevo, il destino dei Paesi, delle donne e degli uomini dell’Europa è quello di «stare insieme». L’alternativa è il declino economico, sociale e politico, altrettanto graduale e duraturo.
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