Negli ultimi anni, poi, una serie di episodi di malcostume politico – talora amplificati in forma indebita dalla stampa e dalla magistratura populista, ma sicuramente esistenti in fatto – ha ulteriormente delegittimato gli enti regionali. Le elezioni di domenica scorsa offrono una conferma di questo ormai lungo declino: alle elezioni di 7 Regioni ordinarie su 15 ha partecipato soltanto il 53,9 per cento degli aventi diritto, con un calo di poco più del 10 per cento rispetto al 64,13 di cinque anni fa e ben 11 punti al di sotto della partecipazione registrata a livello comunale (pure essa in calo, peraltro). Se si vuole un altro dato, si può constatare che gli elettori che hanno votato il 31 maggio in Italia sono stati circa il 15 per cento in meno di quelli che hanno partecipato al voto regionale spagnolo di sette giorni prima.
Questo dato impone almeno due domande: rispondono ancora le Regioni ordinarie ad una esigenza di fondo del sistema costituzionale italiano? E il loro non eccellente stato di salute può dirci qualcosa sulle condizioni della democrazia a livello regionale? La prima domanda apre un problema che da tempo le classi dirigenti italiane rifiutano di sciogliere: l’ente Regione corrisponde al bisogno di articolare dal punto di vista territoriale le identità o è solo un terminale per l’erogazione di servizi (sanità, trasporto locale, politiche economiche e sociali)? La Regione è dunque un ente costituzionale o meramente amministrativo? È abbastanza ovvio che la prima dimensione abbia poco senso senza la seconda, ma quest’ultima potrebbe esistere senza la prima. E se la funzione delle Regioni ordinarie è unicamente amministrativa – come induce a credere fra l’altro l’antiregionalismo della Corte costituzionale e della burocrazia romanocentrica – di quale legittimazione possono godere le Regioni in un contesto di riduzione sistematica delle risorse a loro disposizione (con conseguente taglio dei servizi)?
Il secondo quesito consente di ragionare brevemente sugli effetti della democrazia maggioritaria realizzata, a tre legislature dalle riforme del 1999-2000. A livello regionale sono infatti realtà procedure decisionali che – da parti opposte (ad esempio, dai fautori e dai nemici dell’Italicum) – si invocano a livello nazionale: l’elezione diretta del Presidente con connesso premio di maggioranza (e dunque il vincitore assicurato la sera delle elezioni) e il voto di preferenza. Eppure queste procedure non sembrano aver contribuito a dotare le istituzioni politiche regionali di una legittimazione superiore a quella delle istituzioni statali. I difetti di funzionamento sono anzi simili: la frammentazione del quadro partitico (che ha visto emergere competizioni tri- o addirittura quadri-polari), le divisioni interne a partiti e schieramenti (che producono la vittoria dell’avversario: si vedano Liguria e Puglia) e la distinzione fra Regioni strutturalmente monocolori (Toscana, Marche, Umbria da un lato, Veneto dall’altro) e Regioni ad alternanza possibile (Liguria, Campania, Puglia). Appare in calo anche l’impatto che sul funzionamento della democrazia a livello regionale può derivare dal fattore leadership, sia di quella nazionale, che di quella locale, che pure avevano pesato molto fra il 1995 ed il 2010.
Le Regioni sono dunque più che mai in mezzo al guado ed urge un grande dibattito nazionale sulle loro finalità, sulle "ragioni delle Regioni". Purtroppo la riforma costituzionale in corso (il c.d. ddl Renzi-Boschi) ha finora schivato questo nodo cruciale, sul quale – a partire dalla storia dell’ultimo mezzo secolo e anche dal risultato di domenica – occorrerebbe riflettere, andando un po’ oltre la domanda su chi abbia vinto o perso nell’ultimo test elettorale.