domenica 8 aprile 2012
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È una Pasqua, per molti, amara. In quante case in Italia, oggi, si ha paura di non poter fare fronte ai bisogni dei figli. Qualcuno da questa paura è schiacciato fino alla disperazione – da quella voce maligna che sussurra: non c’è più niente da fare. Apri i giornali. Ancora una volta pagine e pagine di intercettazioni, il fango che schizza; e buste, e tangenti, e favori e lauree comprate, come se proprio ogni cosa avesse un prezzo. Vero? Falso? Richiudi con addosso una opaca mestizia, come se questo Paese fosse irredimibile. (Ma non è vero; è sempre quella voce, a sibilare compiaciuta davanti alle macerie: «Non c’è più niente da fare»).

Sembra che nulla tenga, delle nostre certezze di occidentali convinti che i Pil non possano che crescere, e la qualità della vita migliorare. Invece, che fatica e che ansia in questa Pasqua, e anche il confuso timore di un Paese che non si fidi più di se stesso, reso cinico da troppe delusioni. Sforzarsi di reagire, di essere fiduciosi; e sentirsene mancare le forze – sospettando, in fondo, che l’ottimismo possa essere una illusione da sciocchi. E dunque in questa Pasqua ritrovarsi a mani vuote. Quando le cose vanno bene, facilmente pensiamo di potere confidare in noi soli, nelle nostre sole forze. Ora invece una simile fasulla autosufficienza si sgretola e frana. Eppure, proprio questa può essere la grazia di questa Pasqua: la scoperta di non bastarsi, di avere bisogno di quel Dio di cui, nei tempi sicuri, facilmente ci dimentichiamo, come di una variabile non indispensabile alle nostre giornate.

Se questo buio servisse a riportare noi cristiani a domandare; se ci riportasse a domandare il coraggio a Cristo. Se ci si convincesse che diceva davvero, quando disse: senza di me, non potete fare niente. Se ci inducesse al gesto elementare dei bambini col padre, quando si fanno prendere per mano. Come la bambina fotografata nel Santo Sepolcro (che pubblichiamo oggi in prima pagina), con la guancia appoggiata sulla pietra, pensosa ma serena. Su quella pietra teneramente lisciata da milioni di carezze, dorata nel riverbero delle fiamme delle candele. La bambina ci si adagia come fosse il petto di un padre; come quando, da piccoli, ci si addormenta fra le braccia del padre. Nella certezza, abbandonati. È di pietra quel petto, pietra di tomba, e tomba dopo la morte in croce. Porta tutto il peso del mondo la lastra fredda, tutto il peso oscuro di mille e mille anni di male. Ma quella stessa pietra è stata attonita testimone, nella notte del Sabato, di un fatto inaudito: quell’uomo, dalla morte, è tornato. La morte che ingoiava ogni creatura è stata sbalorditivamente sconfitta. Dove si apriva il nulla ora ci attende la vita, quella vera. Ma lo sappiamo ancora noi, questo? Ancora ci crediamo noi italiani, almeno fino a poco tempo fa naturaliter cattolici, battezzati e cresimati dentro a una tradizione e a volte a questa tradizione così avvezzi da non saperne più vedere l’annuncio dirompente?

La bambina al Sepolcro ha gli occhi socchiusi, come chi tra le braccia del padre si fida. Come chi sa che Cristo non si risparmia e non ci risparmia fatica e dolore: e però sempre, nel dolore, ci accompagna con tenerezza. Come chi sa che il coraggio che da soli non ci possiamo dare, dobbiamo domandarlo. A Cristo, non pia memoria, o fantasma, ma vivo fra noi. Audace? Assurdo? Guardate le facce di chi al nostro Dio si rivolge ogni giorno, a chi pone ogni certezza in lui. Pensate a Teresa di Calcutta, o al volto stremato eppure leonino di Giovanni Paolo II, da vecchio. Non hanno forse uno sguardo diverso dal nostro? Sono come appoggiati su una roccia antica e possente. Come la bambina al Sepolcro. Abbandonati. Certi: che da quel Padre nessuna avversità , nessun buio, nessuna pietra di tomba li potrà mai separare.

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