sabato 7 dicembre 2013
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Come si fa a non dare ragione al Censis quando rileva che la società italiana appare oggi «sciapa», senza sale, specchio di un Paese «sotto sforzo», anche «smarrito», persino «infelice»?Essere realisti non significa cedere al pessimismo e negare ogni possibilità di ripartenza, rassegnarsi cioè a una visione declinante e disperata. Le energie positive e i motivi per mantenere viva la speranza non mancano, ed è bene ricordarli. Ma illudersi che ciò che comunque in una società resiste allo tsunami di una crisi di sistema possa di per sé rappresentare l’appiglio per non annegare, rischia di tradursi in una pericolosa sottovalutazione dei problemi. Se già ai primi sintomi della malattia fossimo stati tutti "prudentemente catastrofisti", osservando meglio e senza paure la parte vuota del bicchiere, oggi forse avremmo qualche carta in più da giocare. Quasi 4 milioni e mezzo di persone cercano lavoro, 6 milioni vivono una situazione precaria, 3 milioni si tengono stretto il posto nel terrore di perderlo, due terzi delle famiglie hanno ridotto la capacità di spesa e non sono in grado di affrontare un’uscita imprevista. Eppure questa «fragilità» la si può cogliere anche prescindendo dalla crudezza delle cifre: ascoltando le persone attorno a noi, i parenti, gli amici, gli altri genitori, i colleghi. «Bene, grazie» è una risposta che sempre di più fatichiamo a dare.Forse è l’abitudine a un benessere sicuro ad averci veramente «fiaccati» fino al punto di non saper più nemmeno riconoscere che il poco che abbiamo può essere già molto, moltissimo. Ma poteva essere diversamente per una crisi figlia di un’avidità che genera «immoralismo diffuso», e che ha nell’accidia, nella «disabitudine al lavoro» o nella ricerca della rendita facile l’altra faccia della medaglia? Chiediamoci perché, semmai, le poche persone ancora felici che ci capita di incontrare sono le coppie in attesa di un figlio. Come eravamo. Ripartiamo da qui, ripartiamo da loro. E non lasciamo che si perdano.
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