sabato 2 novembre 2013
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Gli animali non hanno coscienza della morte. Gli esseri umani, invece, l’hanno sviluppata con lo psichismo riflesso. Ma l’atteggiamento umano di fronte alla morte può essere molto vario: dalla superficialità e banalizzazione allo smarrimento e alla disperazione, due estremi fra i quali si collocano le concezioni che guardano all’oltretomba con timore, misto alla speranza di prolungare in qualche modo l’esistenza. Nella cultura del nostro tempo sono indici di superficialità e di banalizzazione della morte le sfide mortali, quando per gioco o spavalderia ci si espone a rischi per la vita propria o quella degli altri o quando si scherza sulla morte e sui defunti come avviene nelle saghe di Halloween. C’è invece smarrimento e disperazione, quando ci si procura la morte di fronte a gravi difficoltà di ordine economico o grandi sofferenze di ordine fisico o morale. Entrambi i casi sono rivelatori di una caduta di valori, di uno smarrimento della persona, in se stessa e nel rapporto con la comunità.Tra questi estremi si collocano le diverse sensibilità che l’uomo di oggi e di sempre ha espresso nei confronti della fine della vita, un evento in cui si incrocia il senso religioso. Homo religiosus, per usare una espressione cara a Julien Ries, affonda le sue radici nel simbolismo e ha trovato fin dalla preistoria le espressioni più diverse, tra queste i riti funerari che, secondo Ries, costituiscono indizi inconfutabili di una coscienza religiosa. Gli uomini che inumavano i cadaveri credevano in una esistenza ultraterrena, come attestano le offerte trovate nelle tombe e la cura con cui era protetto il cadavere. Secondo Mircea Eliade, la posizione fetale, presentata da numerosi inumati e il frequente orientamento verso Est potrebbero indicare la speranza di una ri–nascita.Le più antiche sepolture risalgono a circa 90–100.000 anni fa. Esse sono state ritrovate in Israele. Come nota Bernard Vandermeersch, il paleoantropologo che le ha studiate, «dal momento in cui gli uomini seppelliscono i loro defunti è come se la morte assumesse per loro un significato nuovo; essa segna per loro la fine della vita, ma non della persona». I documenti sulla religiosità legata alla sopravvivenza si accrescono nel Paleolitico superiore e nel Neolitico quando si ritrovano corredi più ricchi, il frequente uso dell’ocra e l’ornamento di conchiglie. Se l’inumazione, specialmente quando accompagnata da qualche ritualità, documenta in molte culture l’idea della sopravvivenza, non è detto che l’incinerazione del cadavere sia da vedersi come il suo opposto. Presso i popoli indoeuropei troviamo in tempi e culture diverse sia l’inumazione che la cremazione. La cremazione, in uso attualmente in varie culture dell’Oriente, può conciliarsi con l’idea di sopravvivenza, per la quale potrebbe rappresentare come una purificazione. C’è anche chi la vede come una soluzione pratica per il problema dei cimiteri nelle aree urbane. Essa non è proibita dalla religione cattolica, se praticata senza un atteggiamento antireligioso o materialista. In ogni caso, occorre vedere quale concezione della morte sostenga sia la pratica della sepoltura sia quella della cremazione. Per il cristiano la fede nella risurrezione resta l’elemento caratterizzante di fronte alla morte. Non si tratta solo di credere in qualche forma di sopravvivenza, ma di credere in un’esistenza nuova dopo la morte, inaugurata dal grande evento della Risurrezione di Cristo.
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