Mille tonnellate di agenti chimici e 290 di armamenti, l’intero arsenale non convenzionale (quello dichiarato, per lo meno) di Bashar al-Assad è stato messo in sicurezza: gli ispettori dell’Opac hanno completato l’inventario, messo sotto sigillo i siti e il materiale in attesa di rimuoverlo e distruggerlo. Si completa così, con leggero anticipo, la prima fase del programma di disarmo concordato fra Russia e Stati Uniti, un passo significativo decisivo per evitare il pericoloso conflitto (non solo) regionale che l’affollarsi delle marine da guerra di Pechino, Mosca, Washington e Parigi davanti alle coste siriane avrebbe potuto innescare.Ma se la diplomazia delle grandi potenze – incalzata dalla disarmata iniziativa di preghiera per la pace di Papa Francesco – ha messo a segno un innegabile successo sul campo, non altrettanto possiamo dire del lato oscuro, sempre più oscuro della interminabile guerra civile siriana. Una guerra terribile, che la Chiesa denuncia senza tregua, ma che nessuno si decide a mettere tra le grandi priorità della politica internazionale. Un conflitto feroce, dove quello che all’origine era l’Esercito libero (l’unica organizzazione riconosciuta dall’Occidente) deve confrontarsi ormai non più soltanto con l’armata lealista fedele ad Assad, ma soprattutto con quella sempre più robusta costituita dalle milizie jihadiste che si rifanno ad al-Qaeda e che da tempo hanno preso il controllo di intere porzioni del Paese. Ed è qui a Sadad, antichissimo villaggio siriaco a metà strada fra Homs e Damasco, che si è consumata l’ultima strage ai danni della popolazione cristiana: la milizie islamiste l’avevano occupata il 21 ottobre scorso, l’esercito di Assad l’ha riconquistata pochi giorni fa, ma gli insorti hanno fatto in tempo a lasciarsi alle spalle due fosse comuni nelle quali sono stati trovati una trentina di corpi. Altri quindici cristiani avevano perso la vita durante il raid jihadista. Secondo i testimoni oculari molti dei civili sono stati uccisi dai miliziani delle bande di “al-Nusra” e “Daash” mentre cercavano di fuggire o di mettersi in salvo, il giorno dell’invasione. Per un’intera settimana uomini, donne, anziani, bambini sono stati trattati come ostaggi e scudi umani. L’intera città è stata saccheggiata, templi, siti archeologici e icone storiche sono stati danneggiati, le chiese dissacrate, libri antichi e arredi preziosi dati alle fiamme, i muri, gli altari imbrattati di scritte contro il cristianesimo. «Quello avvenuto a Sadad – dice l’Arcivescovo Selwanos Boutros Alnemeh, Metropolita siro-ortodosso di Homs e Hama – è il più grande massacro dei cristiani in Siria e il secondo in tutto il Medio Oriente, dopo quello nella Chiesa di Nostra Signora del Perpetuo Soccorso in Iraq, nel 2010».La pietà in questi casi non basta. Occorre consapevolezza. La consapevolezza che dietro le quinte del conflitto interreligioso siriano (la famiglia di Assad appartiene allo scisma alawita, una costola del credo sciita, mentre l’insurrezione islamista è di schietta impronta sunnita) si muovono con un ben preciso scopo le 11 sigle salafite radunate nel Fronte islamico siriano sotto la guida di Abu-Abdallah al-Hamawi (almeno 18 mila effettivi armati), che a sua volta si è saldato con lo Jabhat al-Nusra (il Fronte di soccorso) e l’Isis (lo Stato islamico in Iraq e Siria). Il disegno – a dispetto della tortuosa opacità che quasi sempre avvolge i conflitti mediorientali – è più che trasparente: istituire un califfato islamico sulle ceneri della Siria di Assad occupando aree sempre più estese di territorio a ridosso della frontiera turca e irachena. Cosa che di fatto sta accadendo.A farne le spese – come sempre avviene in casi analoghi e in tal senso il massacro di Maaloula si staglia come tragica premonizione – le minoranze meno difese e tutelate, su tutti i cristiani siriaci, vasi di fragile coccio che si sospetta sempre più vengano lasciati deliberatamente dal governo di Damasco in balia del fanatismo jihadista. «La scelta – ha detto tempo fa Samir Nassar, arcivescovo cattolico di Damasco – è fra due calici amari: morire o andarsene». E sono sempre di più coloro che la possibilità di scegliere quale calice portare alle labbra non l’hanno nemmeno avuta.