Un’accusa pesantissima, quasi da tribunale internazionale, se davvero risultasse fondata: «L’Italia viola i diritti delle donne che vogliono abortire». Accusa, per di più, fatta circolare con abbondante corredo di semplificazioni e di forzature mediatiche, in perfetta coincidenza con la Giornata internazionale dell’8 marzo. In realtà, come già accaduto in passato (lo ricostruiamo nelle pagine interne), è solo l’ennesimo tentativo di intaccare, e possibilmente conculcare, la libera scelta di chi, nel nostro Paese e non solo, rifiuta per motivi di coscienza di collaborare alle pratiche abortive previste dalla legge 194. E anche questa volta ci sono tutte le premesse e le circostanze perché il tentativo possa essere sventato. Anzitutto perché nei prossimi giorni, quando verranno chiariti gli esatti termini della “notizia”, si capirà che non c’è nessuna «condanna continentale» nei nostri confronti, ma solo un pronunciamento critico di natura tecnica, emesso da un organismo – il Comitato diritti sociali del Consiglio d’Europa – che non ha nessun potere di intervenire sulla legislazione interna degli Stati, tanto meno di attribuire facoltà di intraprendere azioni risarcitorie contro le strutture sanitarie nazionali. Al tempo stesso, emergerà con chiarezza la natura essenzialmente propagandistica dei giudizi emessi, su istigazione ripetuta e pervicace di lobby abortiste internazionali, appoggiate con zelo degno di miglior causa dalla Cgil di Susanna Camusso.Ma sono soprattutto la realtà dei fatti e le cifre a togliere plausibilità e fondamento alle accuse lanciate da Strasburgo in direzione di Roma. Giovedì scorso, appena 48 ore prima che partisse la nuova offensiva, la Commissione Affari sociali della Camera aveva approvato quasi all’unanimità una risoluzione che non lanciava nessun “allarme rosso” sull’attuazione della 194 giudicata, nelle parole della relatrice Elena Carnevali (Pd), «legge complessivamente adeguata» per i suoi fini. Sulla questione degli obiettori di coscienza, il testo del documento sottolinea la necessità di verificare alcuni punti critici, per altro molto circoscritti, comunque non tali da rendere «inattuabile», come si continua ad affermare da ben note tribune, l’interruzione della gravidanza. Paradossale che dobbiamo ricordarlo proprio noi che all’aborto e alla logiche e alla pratiche che lo procurano continuiamo a dire "no". Del resto, perfino nella citatissima Regione Campania, il pur ridotto numero di ginecologi che non si dichiarano obiettori arriva mediamente a dover eseguire meno di 4 interventi ciascuno a settimana.Più in generale, la relazione annuale che il ministero della Salute aveva presentato a settembre del 2013, e attorno alla quale si è poi svolto l’approfondimento parlamentare concluso giovedì a Montecitorio, aveva messo in chiara evidenza che negli ultimi anni la percentuale degli obiettori si è stabilizzata poco al di sotto del 70 per cento e che, per quanto riguarda le “punte” suscettibili di creare difficoltà, è da tempo in atto una verifica minuziosa – ospedale per ospedale e consultorio per consultorio – in base alle quale ministero e singole Regioni sono perfettamente in grado di intervenire a garanzia del servizio richiesto.In realtà, come già accennato, siamo di nuovo alle prese con la ricorrente campagna di aggressione alla libertà di medici e personale sanitario che si ostinano a obiettare, invocando un principio di coscienza altrettanto tutelato sul piano internazionale, ma che si vuole a tutti i costi retrocedere in una sorta di “serie B” dei diritti. Da questo punto di vista c’è un dettaglio illuminante: l’accusa all’Italia viene sostenuta appoggiandola alla presenta disapplicazione di una norma che è prevista da una nostra precisa legge, appunto la 194. Ma in quella normativa ci sono diverse altre disposizioni, a cominciare da quella che invita a rimuovere le cause di natura economica e sociale che possono spingere le donne a rinunciare alla gravidanza. E su questi aspetti non c’è mai neppure l’ombra di un rilievo. Tanto meno si preoccupano mai di sollecitarlo i solerti promotori italiani di “cause” presso istanze sovranazionali, considerate eticamente superiori solo quando fa loro comodo.