Influenzati dalle metafore calcistiche i commenti post vertice europeo si sono concentrati sull’oziosa questione di chi avesse vinto e chi avesse perso. Invece di convenire saggiamente sul fatto che ormai i Paesi membri dell’area euro, per quanto malamente assortiti, sono così interdipendenti tra di loro da doversi per forza salvare insieme. Il cattivo assortimento deriva dal fatto che tali Paesi non sono mai diventati una zona valutaria ottimale come l’avvio dell’unione monetaria prometteva sarebbe progressivamente accaduto. I tre fattori fondamentali di un’area valutaria ottimale sono la mobilità del lavoro, la flessibilità dei salari e i trasferimenti di solidarietà tra regioni. Nessuna di queste tre cose, necessarie per assorbire i problemi di choc asimmetrici nelle regioni che adottano una valuta unica, funziona bene in Europa. Per salvarsi esiste una terapia di lungo periodo che riguarda l’aggiustamento delle economie reali in direzione di una progressiva integrazione alla quale, con l’eccezione forse della Grecia, gli altri Stati sotto osservazione si sono volenterosamente sottoposti.Il problema che Monti ha cercato di sottolineare al vertice è, però, che se i mercati nel breve mantengono il presente stato di agitazione senza riconoscere i progressi compiuti nella terapia, tutte le strategie di lungo periodo verranno vanificate dall’impossibilità a breve di continuare a finanziarsi a questi tassi. Il delicato punto di equilibrio andrebbe dunque trovato attraverso un intervento capace di calmierare i tassi a breve non facendo venir meno l’incentivo dei Paesi sotto terapia a proseguire le riforme. Le ragioni per considerare lo scudo anti-spread lo strumento chiave per trovare questo equilibrio sono le seguenti. Supponiamo esista un valore della differenza di rischio tra Germania e Italia 'ragionevole' che riflette i fondamentali dei due Paesi (es. 250 o 300), ma che il mercato per il momento non riconosce. La Bce che intervenisse per portare, con i propri acquisti, il mercato verso quella quota dal livello attuale degli spread (attorno a 400) si comporterebbe come quell’arbitraggista che punta sul ritorno del valore dello spread al livello dei fondamentali contrastando la speculazione.La complicazione del modello però è che la verità finanziaria (ancorché distorta) interagisce con quella dell’economia reale. Ovvero, se il valore effettivo dello spread permane per molto al di sopra del valore fondamentale, lo stesso fondamentale si deteriora perché la febbre dello spread impone un costo del rifinanziamento del debito pubblico e degli investimenti delle imprese alla lunga insostenibili. Mettendo per giunta nei guai le banche, la cui sorte è ormai legata a filo doppio a quella del debito e dell’economia nazionale.
Ecco perché, se vogliamo che l’equilibrio ragionevole resti quello di 250-300, non possiamo (mentre si realizzano gli aggiustamenti dell’economia reale con tutto il tempo necessario per vederne gli effetti) semplicemente stare a guardare cosa succede nel breve sui mercati finanziari. Al contrario l’iniziativa decisa della Bce nella definizione di un valore fondamentale dello spread da difendere potrebbe innestare da subito un circolo virtuoso rendendo perfino superfluo l’intervento diretto con acquisti sul mercato.
Aiutandosi in questo, se possibile, con le sacrosante e auspicate riforme dei mercati finanziari ormai largamente condivise (tassa sulle transazioni, separazione tra banca commerciale e banca casinò) che ridurrebbero ulteriormente le munizioni della speculazione.
In alternativa a questo auspicato attivismo esistono solo tre altri possibili scenari. Nel primo, gli spread peggiorano, nessuno interviene e la situazione esplode portando al fallimento dell’euro con gravi conseguenze per tutti (Germania inclusa). Nel secondo, la tempesta si placa da sola perché i mercati improvvisamente tornano a fidarsi dell’Italia di Monti e, soprattutto, di quella del dopo-elezioni (ci piacerebbe, ma è difficile che ciò accada).
Nel terzo, al peggioramento degli spread segue la consegna dei Paesi in difficoltà (Italia e Spagna) alle condizioni del Fondo Monetario che, in cambio di prestiti sostitutivi a quelli del mercato a tassi calmierati, impone di fatto ai Paesi una riduzione della sovranità. Una strada impervia per molti motivi, anche perché non possiamo dare per scontato che il Fondo abbia le risorse necessarie per finanziare fuori mercato due Paesi così grandi per molto tempo. Visto in questa prospettiva l’interventismo della Bce, accompagnato dalle indispensabili riforme dell’economia reale e dei mercati finanziari, diventa l’unica via socialmente accettabile e percorribile per l’uscita dalla crisi e il salvataggio dell’euro.