La crisi che ferisce l’Europa è spirituale e morale. In altri termini, ci sono rimasti pochi spiccioli in tasca, dell’eredità immensa che l’alleanza del cristianesimo e dell’umanesimo aveva accumulato in Occidente, facendola fiorire in tutto il suo raggiunto splendore nei nostri primi "secoli d’oro", ossia i secoli XII, XIII e XIV dell’era cristiana (proprio quelli che la pigrizia degli ignoranti continua a ricordare come "secoli bui"). Come il figlio prodigo della celebre parabola evangelica, ad un certo punto abbiamo incominciato a venderci l’argenteria di famiglia, pur di finanziare la nostra spensieratezza ("del doman non v’è certezza"). Abbiamo preteso dal cristianesimo la nostra parte e ce la siamo portata via, per giocarcela in borsa, cambiando tutte le etichette per rendere irriconoscibile la sua provenienza. Non erano soldi veri? Beh, come sappiamo dalle cronache - non si parla d’altro - adesso sono finiti anche quelli. Non c’è nesso? Date tempo al tempo, e verrà fuori anche quello. Non per caso, Gesù ha detto che con Cesare, a certe condizioni si può trattare: con Mammona, mai. Il papa Benedetto XVI, parlando ai Vescovi del nostro Paese, ha ricordato la pressione che la povertà spirituale e morale di questo passaggio d’epoca esercita su di noi e sui nostri contemporanei. «Il patrimonio spirituale e morale in cui l’Occidente affonda le sue radici e che costituisce la sua linfa vitale, oggi non è più compreso nel suo valore profondo, al punto che più non se ne coglie l’istanza di verità. Anche una terra feconda rischia così di diventare deserto inospitale e il buon seme rischia di venire soffocato, calpestato e perduto». E qui il Papa lancia il suo affondo, che ci riguarda. Il nostro «primo, vero e unico compito rimane quello di impegnare la vita per ciò che vale e permane, per ciò che è realmente affidabile, necessario e ultimo». Noi siamo credenti. Sappiamo che la possibilità di avere un felice rapporto con Dio è l’orizzonte del destino per ogni uomo. E abbiamo il compito di coltivare questa relazione, in favore di terzi. Il discorso "su Dio", che non rivela vitalità e franchezza di discorso "con Dio", perde peso, evapora. Ecco la svolta: dobbiamo ritornare «noi stessi per primi a una profonda esperienza di Dio». Se il Papa chiede ai Vescovi di «tornare noi stessi, per primi, a una profonda esperienza di Dio», e dice che questo è «il nostro primo, vero e unico compito», vuole dire che il tempo degli esperimenti promozionali e delle riconversioni aziendali, dei tavoli di concertazione e delle auto-conferme d’ufficio, è proprio finito. Non è il nostro metodo, questo. La genuina e rocciosa semplicità del principio, ancora una volta, è il segreto di un nuovo inizio.La nostra profonda relazione con Dio, individuale e comunitaria, è il seme della fede che sposta le montagne e fa camminare gli alberi. Quello che si vede lì, farà la differenza. Nel tempo della grande fame e sete della giustizia di Dio, che sta per venire, un immenso popolo di ragazzi e ragazze, di ritorno dalle delusioni alle quali sono stati abbandonati, cercherà quello. Sbagliando, gliene abbiamo fatto una colpa. Erano già generazioni partorite nel deserto, non per loro scelta. Quando si metteranno in cerca di cibo solido, rischieranno di travolgere padri e madri, facendo del male a loro stessi. In quel momento, devono trovare uomini e donne che, invece di giudicarli, mostreranno che li stavano aspettando per festeggiare: saldamente di fronte a loro, e ben piantati in Dio. I nostri puntigliosi decori, che abbelliscono otri screpolati, e le nostre faccette professionalmente compunte, che ammiccano all’offerta più conveniente, non le vedranno neanche. Ma che siamo uomini e donne "di Dio", nel quale c’è amore per il riscatto di ogni perdutezza, quello lo vedranno. Eccome, se lo vedranno.