Dopo anni di aspri dibattiti accademici, sociali e giuridici sull’esistenza o meno di un 'diritto al figlio' da parte di una coppia sterile, e sull’eventuale cogenza erga omnes di tale diritto, è piacevolmente sorprendente, di questi tempi, udire dagli stessi sostenitori di un’estensione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita (anche le più ardite e discusse, come la maternità surrogata, il cosiddetto 'utero in affitto') a ogni coppia che desideri comunque un figlio, un’affermazione – quella del 'diritto del figlio' – che veniva da loro bollata come espressione di posizioni culturali e politiche pro life, «troppo centrate sul nascituro», «più attente all’embrione che agli aspiranti genitori» e altre simili. Il ritorno a un pensiero 'del figlio' che concretamente nasce e cresce, e non solo 'sul figlio' desiderato e programmato, deve essere salutato con generoso apprezzamento: se ne avvertiva la necessità culturale e l’opportunità sociale e politica per il nostro Paese, sempre meno abitato da bambini e con poche risorse destinate a essi e alle loro famiglie. Quando però il diritto del figlio viene innalzato a vessillo per la battaglia sull’adozione del bambino da parte di una coppia omosessuale, un membro della quale è suo genitore biologico (la cosiddetta
stepchild adoption), ci si accorge presto di come l’affermazione di questo diritto a nome del concepito con il concorso di un soggetto terzo rispetto alla coppia stessa (uomo donatore di liquido seminale o donna donatrice di ovociti e prestatrice d’utero) appaia strumentale al preteso riconoscimento di un altro diritto, quello delle persone gay o lesbiche a diventare padri e madri in forza di una convivenza con persone dello stesso sesso giuridicamente sancita come 'unione civile'. Siamo così di nuovo tornati al 'diritto al figlio', inteso come antecedente e originante il 'diritto del figlio', che al primo viene subordinato o, quanto meno, ordinato. Come è stato propugnato per rivendicare il 'diritto' di accesso alla fecondazione artificiale per le donne e gli uomini eterosessuali o omosessuali soli (i single) o non più in età riproduttiva (i cosiddetti 'genitori-nonni'): il desiderio di maternità e paternità viene soddisfatto attraverso la medicina della procreazione a prescindere dal bene del figlio che viene alla luce e crescerà in un ambiente domestico non equiparabile psicologicamente, educativamente e socialmente a quello degli altri bambini nati e sviluppati in famiglie con un padre e una madre o con genitori di età proporzionata al loro compito. Il diritto del figlio (nascituro o già nato) precede e fonda quello di una coppia di soggetti che aspirano a diventare genitori naturali o adottivi, perché ogni genitore può essere tale in quanto è, prima di tutto, un figlio (occorre ricordarlo, perché i fondamenti dell’esperienza umana sono spesso oscurati da una ragione strumentale, calcolatrice, ridotta a misura del contingente). Solo lo stare 'dalla parte dei figli' consente di abbracciare 'la parte dei genitori', cioè riconoscere chi è il padre e chi è la madre. Le conseguenze della trascuratezza di questa elementare apertura alla realtà urtano con il principio del diritto internazionale e nazionale sull’adozione, come si è espresso negli ultimi decenni in numerose carte recepite anche nell’ordinamento giuridico italiano. Così la Convenzione di New York sui diritti del fanciullo: «In tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza delle istituzioni pubbliche o private, […] l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente». (art. 3) E ancora: «Gli Stati che ammettono e/o autorizzano l’adozione, si accertino che l’interesse superiore del fanciullo sia la considerazione fondamentale in materia». (art. 21) Non è necessario ricorrere al pensiero forte dell’antropologia della sessualità e della procreazione né invocare gli studi della psicologia, della pedagogia e della sociologia (che non mancano di numero e robustezza): l’esperienza di ciascuno di noi, tutti figli, e di quanti sono genitori, letta con libertà e simpateticità, mostra la qualità di bene e il carattere promettente della vita che sono insiti nella relazione filiale con una donna-madre e un uomopadre, e che si dischiudono nella forma dell’adozione eterosessuale non meno che in quella della genitorialità naturale. Negarlo è irragionevole, perché piega la realtà all’idea che di essa si vuole costruire con la mente.