venerdì 13 gennaio 2012
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La Corte costituzionale ha confermato la sua tradizionale giurisprudenza, che considera inammissibili i quesiti referendari che non siano tali da rendere immediatamente efficace la situazione legislativa che si verifica in caso di abrogazione di parte di una normativa, e quindi ha bocciato quelli proposti per cassare o modificare la legge elettorale in vigore. Questo ha provocato commenti irresponsabili da parte di alcuni politici. In particolare di Antonio Di Pietro, che si è messo a fantasticare di influenze del Quirinale sulla Consulta, o di favori alla «maggioranza trasversale e inciucista» che sta consentendo al governo Monti la sua indispensabile azione di emergenza. Dal Colle è venuta una secca ed eloquente replica. Una polemica che non doveva essere accesa e durata persino troppo. Seria attenzione meritano, piuttosto le interessanti considerazioni che sono arrivate dai settori parlamentari che sostengono il governo, che esprimono l’impegno a cercare in Parlamento un’intesa per modificare il meccanismo di voto. Maurizio Lupi, del Popolo della libertà, e il segretario democratico Pierluigi Bersani hanno espresso la volontà di dare una risposta alla richiesta di riforma venuta da chi ha firmato la richiesta referendaria, e si sa che anche l’Udc da sempre richiede un superamento dell’attuale meccanismo maggioritario che ritiene una della cause del carattere bellicoso del bipolarismo italiano.Naturalmente non è semplice trovare un punto di convergenza sulla riforma elettorale, ma la particolare situazione politica che si è creata, che ha sottratto ai maggiori partiti la funzione di governo e di opposizione che era stata delegata loro dall’elettorato, può favorire il superamento delle divergenze che finora avevano impedito un accordo. D’altra parte, le ultime due legislature (che sono state quelle in cui è stato usato l’attuale meccanismo di voto che espropria in modo insopportabile gli elettori della potestà di selezionare gli eletti) hanno mostrato che l’obiettivo di stabilità che si prefiggeva la legge elettorale ribattezzata "Porcellum" è stato completamente mancato.C’è da sperare che tutti si rendano conto che sarebbe ancora più difficile che un Parlamento eventualmente rieletto in quel modo, ora che i due raggruppamenti tradizionali si sono sciolti di fatto, sia in grado di funzionare. D’altra parte non è ragionevole rammaricarsi per la bocciatura della proposta referendaria, che tendeva a reintrodurre un sistema – il cosiddetto "Mattarellum" – già provato, anch’esso con scarso successo (tra ribaltoni e convulsioni), per tre legislature. Non è solo la legge elettorale, ovviamente, la causa dei fenomeni di scarsa governabilità che hanno caratterizzato l’ultimo ventennio. Ci sono cause istituzionali, a cominciare dal bicameralismo ripetitivo e dalla pletoricità del numero dei parlamentari (difetti che tutti dicono di voler superare e che forse oggi si potrebbero correggere con una riforma condivisa) e cause politiche. Tra quelle politiche primeggia il modo in cui sono state costruite le coalizioni, basate soprattutto sulla volontà di escludere gli avversari dal governo e poco sulla coerenza degli obiettivi.È questo il difetto originario del bipolarismo all’italiana, che ha condotto già in varie occasioni a una paralisi della dialettica politica. Il pregio del bipolarismo, che ha consentito di mettere alla prova delle responsabilità di governo tutte le espressioni politiche, senza esclusioni preventive e che ha conferito all’elettorato una funzione decisiva nella scelta di chi deve governare, è un tratto comune di tutte le grandi democrazie e va tenuto in gran conto. L’interpretazione del bipolarismo come scontro senza quartiere, demonizzazione sistematica dell’avversario, offuscamento della comune responsabilità nazionale, invece, si può e si deve superare. Al Parlamento c’è perciò da augurare un lavoro serio e buono.
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