Non c’è solo la teologia e la dottrina. Non c’è solo il diritto canonico. C’è la vita di persone concrete e dei loro figli dietro il dilemma della riammissione o meno ai sacramenti dei divorziati risposati. C’è in gioco la possibilità di integrarle nel tessuto della comunità cristiana in modo più pieno e più sereno. E quindi di farle sentire meno appesantite dall’ombra di una “colpa” che annebbia anche le dinamiche esistenziali della loro vita intima. C’è soprattutto un’esigenza educativa drammatica e urgente che, come ha mostrato la storia raccontata l’altro giorno nell’Aula sinodale – con il gesto semplice del bambino che ha pensato di condividere l’ostia appena ricevuta con i genitori divorziati risposati –, riguarda la possibilità offerta a questi genitori di mettere in fila parole credibili, esempi efficaci e gesti coerenti. Ecco perché la questione non si può banalizzare. Non si tratta solo di stabilire “Comunione sì, Comunione no”. Perché questa sintesi minimalista finisce per farne un caso da “dottori della legge”, come ha detto l’altro giorno il Papa nell’omelia in Santa Marta. I padri sinodali che da vari giorni stanno dibattendo il problema, prima in plenaria poi nei circoli minori, avvertono invece in tutta la sua profondità, in tutta la sua ampiezza, in tutta la sua drammatica incombenza la complessità di un tema che interseca tanti interrogativi. Come conciliare tradizione e dottrina con la speranza di un futuro diverso per tante persone? La riammissione o meno ai sacramenti dei divorziati risposati non riassume di certo – e infatti lo si è ribadito più volte – l’intera agenda del Sinodo. Ma questo punto – come dimostra anche l’attenzione che l’assemblea gli sta dedicando – ne è diventato in qualche modo una cifra simbolica. Che, anche mediaticamente, viene utilizzata per misurare il “livello di accoglienza” della Chiesa nei confronti delle famiglie ferite. Gli oltre 90 interventi registrati sullo stesso argomento in una sola giornata denotano attenzione, volontà di confronto, desiderio di non lasciare nulla al caso o ai pressappochismi polemici e mediatici. Tanti, come detto, i nodi da sciogliere. C’è contraddizione per esempio tra l’invito-divieto rivolto alle coppie di separati che vivono in nuova unione di esprimere in pienezza il loro rapporto coniugale, con l’invito-esortazione a essere comunque buoni genitori? Questa genitorialità educante, per dipanarsi nella sua pienezza, nasce e fiorisce dalla reciprocità della coppia, in un’alterità feconda che trova proprio nel maschile e nel femminile la sua ricchezza. Ma per essere tale, la coppia deve trarre nutrimento dall’amore autentico tra quell’uomo e quella donna. Ora, che tipo di amore educante può nascere dal cuore di una coppia che si ama, ma a cui la Chiesa consiglia di vivere come fratello e sorella? Il crinale è sottile. C’è una coniugalità chiamata a essere credibile, cioè viva e autentica nel momento dell’educazione dei figli, ma che dev’essere poi “spenta” nell’incontro dei corpi. Può essere coerente questa richiesta? Non si rischia di costringere tante coppie a “fingere” una condizione per rispettare un obbligo in cui teologia del matrimonio e antropologia nuziale confliggono? Da dove nasce questo rischio di finzione? Dal fatto che quando due persone si amano e vivono insieme, sviluppano un’intimità coniugale che si nutre di gesti, di attenzione, di complicità, e tutto questo – anche senza arrivare all’atto sessuale completo – va molto al di là dal considerarsi fratello e sorella. C’è un’armonia sessuale, prima ancora che genitale, che rende ogni coppia unica. E, grazie a questa unicità, il loro essere genitori si traduce anche in impegno educativo consapevole e convinto. Da qui un’ulteriore domanda. Come si può considerare questa coppia pienamente abilitata a educare i figli, anche sul piano della fede, costruendo così futuro per la società e per la Chiesa, ma allo stesso tempo imporre alle stesse persone di “disattivare” lo specifico amore a cui attinge la verità del loro essere coppia-risorsa, a livello sociale ed ecclesiale? È solo un esempio delle tante questioni aperte sotto il profilo umano, esistenziale, educativo che – anche senza ricordare il complesso problema della disciplina sacramentale – sono in questi giorni sul tavolo del Sinodo. Non è difficile immaginare che il nuovo volto della pastorale per le famiglie ferite dipenderà anche dalle proposte di soluzione che i padri sinodali sottoporranno alla valutazione del Papa.
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